domenica 12 ottobre 2014

Le Serate di San Pietroburgo oggi (di Giovanni Sessa)

La casa editrice Solfanelli nell’ultimo periodo sta conducendo una vera e propria “campagna d’autunno” contro la cultura dominante, attraverso la pubblicazione di una serie significativa di volumi. Tra essi va segnalato, per la cura di Giuseppe Brienza e Omar Ebrahime, Le serate di San Pietroburgo oggi (per ordini: edizionisolfanelli@yahoo.it; 0871/561806, euro 15,00). Il libro, come il titolo chiarisce, è il frutto dei primi cinque anni di vita del Centro culturale romano delle “Serate di San Pietroburgo”, di orientamento cattolico. Si tratta di 42 contributi, già pubblicati con qualche variante sulle pagine del periodico Il Corriere del Sud, che sintetizzano gli esiti degli incontri settimanali e delle presentazioni librarie organizzate presso la sede dell’associazione, a partire dal 2010.
     Nella presentazione, Marcello Veneziani rileva che il tentativo messo in atto dagli autori del volume è encomiabile, esempio di resistenza al conformismo intellettuale. Il tratto distintivo che muove tutti i saggi è di pura matrice demaistriana: l’intera storia è interpretata quale teatro dell’eterna lotta tra Chiesa divina e anti-chiesa satanica. Alla luce di questo presupposto teorico,    nel testo vengono analizzate diverse situazioni della attuale contingenza storica, presentati personaggi di grande valenza positiva e criticati falsi miti della contemporaneità. L’incipit del libro è caratterizzato dall’individuazione delle relazioni sempre sottaciute, che legherebbero il tramonto dell’Urss alla nascita della Comunità Europea. La tesi fa aggio sulle ricerche del dissidente Vladimir Bukovskij, che ebbe modo di indagare negli Archivi Segreti dell’ex impero comunista   rilevando le strane affinità che avvicinano dirigismo finanziario eurocratico e centralismo sovietico. L’analisi è stimolante, anche se ci sembra sottovalutare il ruolo positivo che la Russia di Putin potrebbe svolgere nell’attuale scacchiere internazionale.
     Gli autori presentano in “medaglioni” biografico-intellettuali, personaggi che ritengono sintonici al loro progetto culturale. Tra essi, il romanziere cattolico Chesterton, inventore di Padre Brown, investigatore sui generis, che dismessi gli abiti e gli strumenti d’inchiesta propri del razionalismo, si introduce nell’animo dei co-protagonisti delle sue avventure, riuscendo a comprenderli a fondo. Tale capacità viene attribuita alla opzione cattolica dello scrittore inglese, il quale vide nella Chiesa di Roma “…l’unica religione antica ad essere così nuova” (p. 27).  Estremamente importante è, tra le altre, la figura del filosofo-contadino Gustav Thibon che, nei suoi scritti, presentò “…la campagna come mondo rappacificato, segnato da quella penitenza che permette la riconciliazione dell’uomo con se stesso, dunque con la creazione, infine con il Creatore” (p. 38), o quella, rilevante su altro piano, di Giovanni Guareschi. Sotto il profilo politico, la centralità di de Maistre e della sua idea di contro-rivoluzione è riaffermata sia nel saggio a lui dedicato, sia nello scritto relativo a Pat Buchanan, esponete del conservatorismo repubblicano Usa, fermamente convito che il fronte contro cui oggi è necessario battersi sia costituito dal laicismo che “…ha portato agli eccessi del femminismo, dell’ambientalismo e del movimento gay oltre che l’aborto, autentica ignominia della società umana” (p. 45).
    Interessante è la ricostruzione storica dell’affermarsi della Massoneria in Europa e in Italia, in particolare l’analisi dei rapporti tra la società segreta e la Chiesa dopo che, nel 2007, padre Rosario Esposito è stato accolto tra i fratelli. Informazioni poco note il lettore potrà trarre dal capitolo relativo ai “Falsi miti del Novecento”, dove si legge di un Che Guevara istitutore dei campi di correzione forzata a Cuba, del romanziere Gabriel García Márquez e dei suoi rapporti strutturali con il Partito Comunista, di Martin Luther King aduso al plagio di opere altrui e dedito al tradimento coniugale e, soprattutto, dell’antisemitismo del presidente cileno Salvador Allende, attestato dagli studi più recenti di Victor Farías.

   Infine, non si può non condividere il giudizio degli autori sul Sessantotto, la cui rivoluzione culturale spazzò via ogni residuo tradizionale innescando l’accelerazione dei processi della globalizzazione omologante. Il problema è che, a differenza di quanto Brienza ed Ebrahime ritengono, la resistenza al nichilismo dispiegato non è nelle corde della sola tradizione cattolica. Anzi! A nostro parere, essere cattolici vuol dire collocarsi dalla parte della Tradizione in modo dimidiato.

Giovanni Sessa

venerdì 25 luglio 2014

M.S.I. ed eversione nera. Si apre la stagione del revisionismo storiografico (di Giovanni Sessa)

L’esercizio dell’autoanalisi, sia personale che comunitaria, è uno strumento utile, purché sia finalizzata a propiziare la fuoriuscita da un periodo di crisi o di disagio. La “destra” italiana (o ciò che ne resta, o che sorgerà dalle sue ceneri), allo stato dei fatti, ne avrebbe davvero bisogno. Uno   stimolo a che ciò avvenga, può essere rintracciato nella recente pubblicazione, per i tipi di Solfanelli, di un volume scritto a due mani da Ivan Buttignon e Mattia Zenoni. Si tratta di M.S.I. e terrorismo nero tra verità e montature (per ordini: edizionisolfanelli@yahoo.it 335-6499393, euro 14,00). Il testo è una ricerca sulla storia del M.S.I., dalla nascita al suo dissolversi in AN, affrontata secondo diverse sfaccettature: ideologica, correntizia, e financo attenta ai dati caratteriali ed emotivi dei suoi protagonisti.
    Gli autori utilizzano tanto la lettura obiettiva dei documenti (tra essi vanno menzionate le interviste inedite di personaggi quali Stefano delle Chiaie e dei fondatori di Democrazia Nazionale on. Renzo de’Vidovich e Giovanni Guarini), così come la conoscenza in qualche modo diretta dell’ambiente delle destra italiana, visto che Buttignon collabora con riviste d’area e Zenoni, nonostante la giovane età, è stato consigliere comunale della Lega in un comune del Nord. La ricerca storiografica, in queste pagine, non è mai soffocata dal primato del dato obiettivo, ma animata e sostenuta da un rapporto empatico con l’oggetto indagato. Il che, dal nostro punto di vista non è un limite, ma un pregio del volume. Tale atteggiamento esegetico è indotto dall’urgenza che gli autori avvertano e trasmettono al lettore accorto, di dover fornire risposte ai quesiti ancora aperti in merito agli “anni di piombo” e al ruolo giocato in essi dalla destra partitica. Fare chiarezza su personaggi del M.S.I., nell’ambito ora ricordato, può infatti rivelarsi utile a compiere oggi scelte accorte e politicamente proficue, in una situazione altrettanto drammatica ma certamente altra rispetto a quella di allora.
    Per conseguire l’obiettivo, gli autori, nelle due parti che costituiscono il libro, Analisi delle origini e delle tre “macrocomponenti” e Le altre correnti missine, ripercorrono gli albori della storia del Movimento Sociale, rilevandone un’anima contraddittoria ed ambigua. Infatti, mentre la componente della sinistra nazionale, in certi momenti interna, in altri esterna al partito, rivendicava il lascito socializzatore e repubblichino del fascismo, e con esso la sua vocazione rivoluzionaria, la destra interna, nelle sue diverse opzioni, teorizzava e praticava l’inserimento parlamentare. Con Michelini alla Segreteria nazionale, tale tendenza avrebbe agito per il costituirsi in Italia di una “Grande Destra” conservatrice, capace di condizionare in senso nazionale la DC. In tale contesto, viene rilevato il camaleontismo almirantiano il quale, di volta in volta, nelle tornate congressuali, si presentava come leader della corrente di sinistra per poi stringere accordi “centristi” con la componente moderata.
    In quest’ottica, la riconquista della Segreteria da parte di Almirante sul finire degli anni Sessanta,  portò a rilanciare il progetto della “Destra Nazionale”, fondandolo, da un lato, sul ritorno nel M.S.I. di una parte degli eretici “spiritualisti” di Ordine Nuovo, la componente che faceva capo a Pino Rauti, e dall’altro stringendo un’alleanza politico-elettorale con i monarchici. La nuova situazione non mutò l’atteggiamento generale, tenuto dai vertici del partito fin dal 1946, nei confronti dell’estremismo: da un lato di fronte ad atti violenti e/o episodi terroristici, prendere le distanze da essi (esemplare, in questo senso, è il caso della morte dell’agente Marino nel “giovedì nero” di Milano), per  poi continuare a coltivare la cultura anti-sistema nel mondo giovanile. Il che rappresenta, agli occhi dei due studiosi, una pericolosa contraddizione mai risolta.
     In apposito paragrafo si affronta l’analisi della corrente spiritualista che si richiamava al pensiero di Evola, dalla vulgata giornalistica anni Settanta, ritenuto ispiratore del terrorismo nero. In queste pagine si ricorda l’assoluzione piena del pensatore da una accusa del genere, nei primi anni Cinquanta, dopo gli attentati dei FAR, che gli costò il carcere per sei mesi. Chi si sia davvero confrontato con le opere di Evola, ben sa che in esse non vi è il benché minimo invito alla violenza. Come ha esemplarmente mostrato G. de Turris nel suo Elogio e difesa di J. Evola (Mediterranee,1998) se qualcuno ha pensato di agire attraverso la violenza in nome della dottrina evoliana, è stato evidentemente un pessimo discepolo. Ad Evola non possono attribuirsi responsabilità di sorta in tema di terrorismo.
   Quali, quindi, le conclusioni in merito ai rapporti tra terrorismo e M.S.I.? Gli autori sostengono che gli scontri di piazza cui, per decenni, parteciparono anche i giovani del partito, per difendere la loro presenza politica e, a volte, la loro sopravvivenza fisica (aggiungo io), fecero ritenere a qualcuno che lo Stato fosse debole e potesse essere colpito: “…con la complicità di qualche camerata del M.S.I.” (p. 182). Le risultanze processuali relative alla strage di Peteano, si dice nell’ultimo capitolo, misero in luce che i coinvolti nella vicenda erano organici al Movimento Sociale e che lo stesso Almirante avrebbe inviato in Spagna all’autore della strage circa 35.000 dollari statunitensi per far operare Cicuttini (il telefonista del gruppo) alle corde vocali ed eludere, così, la sua identificazione. Buttignon precisa: “…faccio fatica a immaginare uno scenario del genere” (p. 179), e noi condividiamo il suo scetticismo. Non viene sottaciuto neppure il coinvolgimento di Rauti nella strage di Piazza Fontana e in altri episodi terroristici del periodo, accuse dalle quali, come si sa, in seguito fu prosciolto. 

   Oggi è possibile trarre un bilancio storico-politico della “strategia della tensione” e degli “anni di piombo”. Gli unici sconfitti, oltre naturalmente alle moltissime vittime innocenti, furono coloro che ritenevano di combattere il sistema, da destra o da sinistra. I vincitori furono i “poteri forti”, i loro rappresentanti, che di quei drammi si servirono per consolidare, sul sangue di molti, la loro egemonia. E’ bene, quindi, come fa il libro presentato, indagare anche in casa propria, individuare eventuali responsabilità, per poter tornare ad agire politicamente, ma a condizione che si tenga conto del clima in cui si trovò a vivere chi militava a “destra”e dei molti che finirono ingiustamente in carcere per le montature giudiziarie ordite contro di loro, e tardivamente assolti da accuse infamanti.

Giovanni Sessa

mercoledì 16 luglio 2014

A Settant’anni dalla morte di Giovanni Gentile (di Giovanni Sessa)

Nella ricorrenza del settantesimo anniversario dell’assassinio di Giovanni Gentile, si è finalmente tornati a parlare del pensiero e della vita del filosofo di Castelvetrano. Saggi, articoli e diversi libri hanno riaperto il dibattito su questa eminente figura di filosofo, di politico, di pedagogista e di organizzatore culturale. Tra i tanti, ci preme qui segnalare e discutere il contributo fornito all’esegesi dell’attualismo da Primo Siena. Si tratta del volume, Giovanni Gentile. Un italiano nelle intemperie, nelle librerie per l’editore Solfanelli (per ordini: edizionisolfanelli@yahoo.it  335/6499393; euro 14,00). Il testo è strutturato in modo complesso e organico. Infatti, il saggio introduttivo dell’autore consta di tre momenti, nei quali vengono presentati i più salienti tratti della biografia e della filosofia gentiliana, non escluso il rilevante contributo pedagogico del pensatore  e l’analisi dei principali interventi critici finora prodotti attorno alla sua opera. Segue un’ampia raccolta antologica di testi gentiliani, davvero meritevole di segnalazione, non soltanto per le accorte scelte messe in atto nella selezione, capaci di dare un quadro complessivo dell’attualismo, in particolare della sua teoria politica, ma perché ci pare sempre più urgente stimolare l’ambiente intellettuale della “destra” italiana al confronto con la filosofia, rispetto alla quale, e non solo nell’ultimo periodo, registriamo un’ improvvida idiosincrasia. L’Appendice, infine, raccoglie tre saggi: il primo di Leonardo Castellani, gesuita argentino, che si intitola Giovanni Gentile filosofo del fascismo; il secondodi uno studioso di origini romene, ma spagnolo d’adozione, allievo del filosofo alla “Sapienza” di Roma, George Uscatescu, affronta il tema Giovanni Gentile ed Ernst Jünger e i nessi teorici che legherebbero la figura dell’Operaio alle tematiche dell’umanesimo del lavoro; il terzo è il testo della relazione che Armando Carlini tenne in un Convegno del 1955 a Pisa, intitolata Il pensiero politico di Giovanni Gentile.
    Questa la struttura del volume di Siena. Quale, invece, la sua lettura dei dati biografici e della filosofia attualista? E’ presto detto: l’autore mira innanzitutto a valorizzare il sacrificio di Gentile, il Gentile uomo e politico, a presentare l’estrema coerenza di un magistero testimoniato nella vita vissuta: “Un magistero che concepisce la vita come incessante combattimento per coloro che…sanno sfidare le intemperie” (p. 74).  La morte, per mano di gappisti fiorentini, colse il filosofo il 15 Aprile del 1944, nei pressi del cancello di Villa Montalto, dopo che, in conseguenza della prolusione che egli aveva tenuto il 19 marzo in occasione della celebrazione del bicentenario vichiano a Firenze, Radio Londra aveva sollecitato il sollevarsi della “santa rabbia” nei suoi confronti, nei confronti di colui che veniva definito un ex-filosofo. In quei tragici mesi, Gentile era impegnato nella revisione del proprio testamento spirituale, Genesi e struttura della società e aveva già pronunciato, il 24 giugno 1943, il discorso in Campidoglio, con il quale aveva chiesto agli italiani, in un momento drammatico, di non perdersi nel particulare, ma di rinvenire, ancora una volta, nell’azione spesa per la Patria e il bene comune, il senso più profondo dell’universale.
      Ci sia consentita una breve chiosa: in questa doverosa apologia del sacrificio del pensatore di Castelvetrano, ci pare che Siena tributi gli “onori delle armi”, oltre che al filosofo, a se stesso e a quanti della sua generazione seppero, non soltanto alla fine della seconda guerra mondiale, ma in tutto il dopoguerra, “tenersi in piedi”, proprio come Gentile. Il che ci pare non solo legittimo, ma assolutamente doveroso e necessario. Chi scrive appartiene ad un’altra generazione, ma a Siena e ai “Suoi” deve davvero molto in termini di testimonianza ideale e spirituale.
    L’esegesi della filosofia politica di Gentile muove dalla constatazione che essa si fonda sulla comprensione che lo Stato: “…non si manifesta inter homines, ma in interiore homine” (p. 17), e quindi la formulazione dello Stato come volontà universale contraddice l’idea illuminista dello Stato quale risultato del “contratto sociale”. Società e Stato sono volere in atto, volontà morale, per cui la creazione dello Stato, del Politico, l’individuo deve possederlo in sé ed esserne cosciente. L’accusa di statolatria mossa alla dottrina gentiliana è infondata. Infatti, lo scrittore italo-cileno avverte: “…che se questo Stato sembra assorbire l’individuo, e se in esso l’autorità sembra risucchiare la libertà…si può rovesciare la questione e sostenere che l’autorità sia assorbita nella libertà e sia lo stesso individuo ad inghiottire lo Stato” (p. 19) Siena, inoltre, prende le distanze dalla sinistra attualista di Spirito, in quanto sostiene che la definizione di Gentile dei comunisti come “corporativisti impazienti”, non implicava alcun apertura al marxismo. Anzi! La dottrina corporativa aveva assunto in sé quelle problematiche che il comunismo si era mostrato incapace di risolvere. Inoltre, ciò che distingue in modo chiaro la posizione di Gentile dal marxismo, secondo l’autore, è da individuarsi nel fatto che Marx considera l’uomo: “…sul piano meramente temporale evitando di collocarlo in una prospettiva metafisica” (p. 21). Ed è questa medesima considerazione etica dell’agire umano, mutuata da Mazzini e dal Risorgimento, che induce Gentile a marcare ulteriormente la distanza dal marxismo e a fare della “rivoluzione” fascista l’alternativa del comunismo e del liberal-capitalismo. La propensione etico-spirituale dell’attualismo, indurrà Gentile ad elaborare l’umanesimo del lavoro e a sviluppare una pedagogia attenta ai bisogni del discente.
     Con l’umanesimo del lavoro il filosofo concesse all’attività umana, compresa quella manuale e non creativa, di essere connotata dalla medesima dignità fino ad allora attribuita alla prassi intellettuale: ogni uomo acquisisce, alla luce di tale concezione, la specificità dell’artifex. Sul piano pedagogico, l’attualismo sostenne l’educazione essere arte e non racchiuse l’età evolutiva ad una sola stagione dell’esistenza umana. Essa coincide: “…con l’intera esistenza dell’uomo: s’impara vivendo, cioè pensando” (p. 39). Il maestro insegnando si educa, in quanto docente e discente sono momenti di un unico processo. Ciò condusse Gentile a credere fermamente nel rispetto pedagogico dell’innocenza dell’allievo. Anche in questo ambito, la Sua scuola dell’esempio e della serietà, potrebbe oggi svolgere il ruolo, ricorda Siena, di vero e proprio paradigma per una istituzione che ha ormai fatto della permissività indiscriminata il suo solo punto di riferimento.
     Per le ragioni suddette, l’autore ritiene che la filosofia di Gentile, in particolare nei suoi esiti e nonostante le premesse immanentiste e moniste, abbia in sé un Itinerarium mentis in Deum. Per tale ragione, la chiave di volta della lettura di Siena è rintracciabile nello scritto di Carlini contenuto in Appendice, o più in generale, nella esegesi condotta in argomento da Sciacca. Insomma: “L’itinerario dall’uomo a Dio, nella ricerca gentiliana, viene…profondamente confermato: dal particolare all’universale e dall’universale all’Ente Divino” (p. 30). Nel pensatore di Castelvetrano è, infatti, presente, secondo l’interpretazione di Sciacca che Siena pare condividere, un anelito verso la trascendenza, una sorta di “felice contraddizione” che, alla lunga, avrebbe indotto tale filosofia al superamento dell’immanentismo connotante l’intero percorso dell’idealismo moderno.
    E’storicamente vero che alcuni allievi di Gentile hanno tentato di vincolare il puro divenire attuale ad una prospettiva ferma e rigida, negante la radicale immanenza attualista, riammettendo per questa via la fede in Dio. Tra essi vanno ricordati, in prospettive teoretiche diverse, Guzzo, Carlini, Sciacca e lo stesso Bontadini, ancor più ardito degli altri, che si provò a ri-pensare l’Assoluto come Summum Ens.  A differenza di Siena crediamo che questi tentativi furono, però, una regressio rispetto alle posizioni del maestro. Se un merito filosofico va attribuito a Gentile è quello di aver definitivamente liberato l’idealismo da ogni residuo di idea di fondamento e da ogni supina accettazione della concezione del soggetto, propria della filosofia moderna. Ora non si tratta, dal crinale speculativo conquistato da Gentile, di“tornare indietro”, di abbandonare la posizione, ma di guardare in direzione di nuove prospettive capaci di indurre il superamento della dimensione meramente gnoseologica dell’attualismo. Allo scopo sarebbe necessario, a nostro parere, porsi all’ascolto delle due più originali e potenti vie transattualiste proposte agli uomini del secolo scorso, ma attualissime, quelle di Julius Evola e di Andrea Emo.

   Nonostante questa differenza interpretativa, riteniamo il contributo di Siena estremamente stimolante. Il momento attuale richiede il serio contributo teorico-politico delle diverse anime intellettuali che si battono contro il dominio indiscriminato del pensiero Unico e dell’Utile. Siena, in modo coerente, rigoroso ed organico, oramai da una vita, sta contribuendo a far si che questa battaglia sia almeno combattuta. In un momento di disarmo generalizzato, per un’intera area intellettuale, ciò non è poco. Anche con questo libro che vivamente consigliamo ai lettori,   tornando a farci discutere di Gentile, egli ci invita a dialogare in vista di Altre Sintesi.    

Giovanni Sessa


domenica 16 marzo 2014

RECENSIONE a LA SPADA DI PERSEO di Primo Siena (a cura di Paolo Rizza)

Se la civiltà è il risultato del provvidenziale convergere dei suoi peculiari aspetti lungo un simbolico asse verticale che ne preordina la finalizzazione trascendente, non deve sembrare casuale che la preoccupazione di ricongiungere l’esercizio del potere a valenze di carattere metafisico sia riemersa in concomitanza con il propagarsi di una cultura corrosa dal mistificante riduzionismo di una ragione sottratta alle predisposizioni intuitive e vivificatrici dell’intelligenza.
La metapolitica, declinata in una prospettiva che riconosce la necessità di subordinare le variegate articolazioni storiche del mondo tradizionale ai principi di un ordine scaturente dalla sapienza creatrice del Verbo, addita i criteri validi per una demistificazione della pretesa di ridurre la politica a strumento di realizzazione di velleitarie finzioni concettuali, generate da una aprioristica razionalizzazione della realtà.
Tale progetto, capillarmente concretizzatosi in conseguenza delle premesse antropocentriche e razionalistiche del mondo moderno, si è istituzionalizzato nel perverso trionfo della “criptopolitica” che, dietro le parvenze di fumose presupposizioni ideologistiche, sancisce il dominio incontrastato del potere economico-finanziario.
La coraggiosa riproposizione dei canoni di una disciplina che riafferma la tradizionale dipendenza della politica dalla provvidenzialità di un ordine capace di determinarne finalisticamente la natura e le funzioni, scompagina le consuetudini ottusamente e pervicacemente preclusive di una falsa cultura, ormai approdata alle conclusioni parossistiche e aberranti del relativismo.
In esplicita adesione alla suaccennata prospettiva metapolitica, sono concepiti gli audaci percorsi culturali raccolti da Primo Siena nel volume La Spada di Perseo, pubblicato dall’editore Solfanelli nel 2013 e apparso in versione spagnola alcuni anni prima; pur nel doveroso rispetto per la nobile testimonianza civica e culturale dell’Autore, va notato che il libro si presta ad alcune considerazioni critiche, relative ai termini non sempre chiarificatori nei quali vi si prospetta il plesso delle tendenze determinanti la direzione catagogica propria della modernità.
Proponendo una disamina delle molteplici distorsioni indotte dalla “cripto politica” e dalla sua intenzionale propensione a favorire la stabilizzazione di un potere demagogicamente irrispettoso delle naturali diversificazioni dei corpi intermedi, Siena imputa giustamente alla democrazia moderna il demerito di una radicale falsificazione dei fondamentali concetti politici, surrogati da una rappresentanza disorganica, conforme agli intenti prevaricatori della speculazione mercantilistica e creditizia.
A tale riguardo, egli ritiene che la democrazia antica potrebbe rappresentare un utile correttivo alle copiose aberrazioni promosse dal livellamento generalizzato e dalla centralizzazione oligarchica: pur tuttavia, si deve riconoscere che la necessità di contestualizzare e differenziare i particolari ambiti storico-politici nei quali si palesarono le tendenzialità congenite e rappresentative della democrazia, non pregiudica la loro derivazione dai logori schematismi di una decadente cultura nominalistica e relativistica che, ispirandosi all’insana pretesa di travolgere i fondamenti del sapere nella sconsideratezza di una insensata critica demolitrice, fu magistralmente confutata dalla vigorosa intelligenza speculativa dei grandi pensatori del periodo classico.
La democrazia, indipendentemente dalle sue diverse configurazioni storiche, istituzionali e normative, è intimamente connessa a preconcette implicazioni scettiche e materialistiche, in conseguenza delle quali si rivela caratterizzata dall’inclinazioni a privilegiare irresponsabilmente le decisioni vincolate ai crismi ingannevoli del consenso maggioritario sul ponderato giudizio di persone competenti e sollecite del bene comune.
Come ha opportunamente osservato Siena, la globalizzazione, che ne costituisce l’esito ultimo, rappresenta la parodistica contraffazione dell’autentico universalismo, che fu la mirabile culminazione della civiltà medioevale.
Riprendendo un giudizio elaborato da Giovanni Papini in base a considerazioni di natura prevalentemente estetico- letteraria e volto ad avallare la tesi di una sostanziale continuità tra Medioevo e Rinascimento, Siena tende ad accreditare nel pensiero politico dell’Alighieri una potente e significativa espressione anticipatrice degli sviluppi del mondo culturale umanistico.
In proposito, occorre rilevare che la postulazione di una fondamentale unitarietà di prospettive tali da accomunare e congiungere due periodi storico- culturali tanto diversi, è smentita dai presupposti di quel universalismo ove – come egli scrive- “le diversità non sono appianate, bensì vengono assunte dalla struttura gerarchica dell’Impero”.
La concezione politica dantesca, inquadrata in una profonda sintonia con le strutture politiche e i fondamenti dogmatici della Cristianità medievale, presenta innegabili difformità da qualunque valorizzazione delle pressanti tendenze centrifughe che concorsero a incrinarne l’interna dinamicità, impedendo che la gerarchica integrazione delle diversificate realtà territoriali e societarie potesse inserirsi e progredire nella compaginata sintesi istituzionale di un Impero, inteso quale cardine indispensabile di giustizia e di civiltà.
Il declino delle potestà universali provvidenzialmente atte a suscitare e a ordinare la multiforme e stratificata varietà politico- giuridica del Medioevo, il ruolo vieppiù determinante conseguito dai particolarismi regionali e nazionali, la dissoluzione della composta sintesi ideale che predisponeva l’intelligenza a intendere le diverse realtà contingenti in rapporto alla contemplazione dei Misteri della Fede, delineano la fisionomia del Rinascimento, che persegue il proposito di ricongiungersi alla classicità al di fuori del quadro intellettuale tipico del periodo precedente; la reinterpretazione del pensiero greco riflette la temperie di una idealizzazione tendenzialmente volontaristica della potenza creatrice dell’individuo, contrapponendosi palesemente ai canoni del tradizionale realismo cattolico.
Il tentativo di valutare il Rinascimento come prosecuzione dello spirito medievale, si colloca in una angolazione che racchiude unitariamente una sintesi prospettica tra i giudizi critici di Giovanni Papini e la posizione metapolitica di Silvano Panunzio: esso apparendo pregiudizialmente condizionato da una sottovalutazione della consistenza del naturalismo, affermatosi come la dimensione speculativa più caratterizzante della cultura rinascimentale, non può validamente cautelarsi contro il pericolo di ascrivere al termine “tradizione” ambigue connotazioni storicistiche.
Coerente esemplificazione di un approccio ermeneutico in cui esiti rivelano la problematicità di assunti non plausibili, è la rilettura del pensiero politico di Machiavelli nei termini di un realismo dotato di valenze conformi alla fede cristiana e culminante nella visione provvidenzialistica di Gian Battista Vico.
La scarsa considerazione dei processi che valsero a demolire l’architettura organicamente universalistica del mondo medievale, si associa alla non sufficiente differenzazione tra il realismo della philosophia perennis e lo spregiudicato amoralismo pragmatistico di una filosofia politica affermativa ai suoi orizzonti metafisici.
Inoltre, la questione relativa ai supposti prolungamenti della concezione politica del Segretario fiorentino nel “spiritualismo storico” di Vico, potrebbe proficuamente ridurre a valutare la maggiore o minore fondatezza delle interpretazioni neoidealistiche del suo pensiero.
Senza pretendere di esaurire la complessità dei temi affrontati nel libro, si può affermare conclusivamente che la riproposizione di una teologia politica attinta alla sapienza nel Magistero cattolico, impone il compito imprescindibile di smascherare le diverse forme statuali derivate dal principio d’immanenza, per riscoprire l’integralità di una visione rettamente tradizionale della vita e del mondo.

Paolo Rizza


Primo Siena
LA SPADA DI PERSEO
Itinerari metapolitici 
Ediizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-836-6]
Pagg. 264 - € 18,00


http://www.edizionisolfanelli.it/laspadadiperseo.htm