FARETRA
Collana delle Edizioni Solfanelli
sabato 10 giugno 2017
Video della presentazione di "GIORGIO LA PIRA. Un domenicano alla Costituente" di Giullio Alfano
Video della presentazione del saggio di Giulio Alfano "Giorgio La Pira. Un domenicano alla costituente" (Edizioni Solfanelli), svoltasi a Pescara (10/06/2017):
mercoledì 11 maggio 2016
Novità: LA SCIENZA DICE NO di Gerard J.M. van den Aardweg (Edizioni Solfanelli)
L’attualità dell’argomento qui trattato è bruciante, dopo che il percorso per l’introduzione del “matrimonio gay” nell’ordinamento giuridico è ufficialmente iniziato anche nel nostro Paese, nonostante le ben note proteste e contestazioni di quella che possiamo considerare la parte ancora sana del popolo italiano.
Il saggio del dr. Aardweg è solidamente fondato sui dati di una ineccepibile ricerca scientifica, che impegna da più di cinquant’anni l’ottantenne psicologo e studioso. La subcultura gay è riuscita a far prevalere l’idea che l’omosessualità sia un “orientamento sessuale” naturale, innato, pertanto non trattabile con le terapie di tipo psichiatrico e psicoanalitico perseguite con successo dal dr. Aardweg.
Con dovizia di argomenti scientifici l’Autore dimostra la falsità dell’assunto, illuminandoci, nello stesso tempo, sulla vera natura dell’omosessualità e dello “stile di vita” dell’universo gay, ben diverso dall’immagine edulcorata fabbricata dal mondo dell’informazione.
Gerard J.M. van den Aardweg
LA SCIENZA DICE NO
L’inganno del “matrimonio” gay
Presentazione di Paolo Pasqualucci
Edizioni Solfanell
[ISBN-978-88-7497-971-4]
Pagg. 168 - € 12,00
http://www.edizionisolfanelli.it/lascienzadiceno.htm
Il saggio del dr. Aardweg è solidamente fondato sui dati di una ineccepibile ricerca scientifica, che impegna da più di cinquant’anni l’ottantenne psicologo e studioso. La subcultura gay è riuscita a far prevalere l’idea che l’omosessualità sia un “orientamento sessuale” naturale, innato, pertanto non trattabile con le terapie di tipo psichiatrico e psicoanalitico perseguite con successo dal dr. Aardweg.
Con dovizia di argomenti scientifici l’Autore dimostra la falsità dell’assunto, illuminandoci, nello stesso tempo, sulla vera natura dell’omosessualità e dello “stile di vita” dell’universo gay, ben diverso dall’immagine edulcorata fabbricata dal mondo dell’informazione.
Gerard J.M. van den Aardweg
LA SCIENZA DICE NO
L’inganno del “matrimonio” gay
Presentazione di Paolo Pasqualucci
Edizioni Solfanell
[ISBN-978-88-7497-971-4]
Pagg. 168 - € 12,00
http://www.edizionisolfanelli.it/lascienzadiceno.htm
domenica 12 ottobre 2014
Le Serate di San Pietroburgo oggi (di Giovanni Sessa)
La casa editrice Solfanelli nell’ultimo
periodo sta conducendo una vera e propria “campagna d’autunno” contro la cultura
dominante, attraverso la pubblicazione di una serie significativa di volumi.
Tra essi va segnalato, per la cura di Giuseppe Brienza e Omar Ebrahime, Le serate di San Pietroburgo oggi (per
ordini: edizionisolfanelli@yahoo.it;
0871/561806, euro 15,00). Il libro, come il titolo chiarisce, è il frutto dei
primi cinque anni di vita del Centro culturale romano delle “Serate di San
Pietroburgo”, di orientamento cattolico. Si tratta di 42 contributi, già pubblicati
con qualche variante sulle pagine del periodico Il Corriere del Sud, che sintetizzano gli esiti degli incontri
settimanali e delle presentazioni librarie organizzate presso la sede
dell’associazione, a partire dal 2010.
Nella presentazione, Marcello Veneziani rileva
che il tentativo messo in atto dagli autori del volume è encomiabile, esempio
di resistenza al conformismo intellettuale. Il tratto distintivo che muove
tutti i saggi è di pura matrice demaistriana: l’intera storia è interpretata
quale teatro dell’eterna lotta tra Chiesa divina e anti-chiesa satanica. Alla
luce di questo presupposto teorico, nel
testo vengono analizzate diverse situazioni della attuale contingenza storica, presentati
personaggi di grande valenza positiva e criticati falsi miti della
contemporaneità. L’incipit del libro è
caratterizzato dall’individuazione delle relazioni sempre sottaciute, che
legherebbero il tramonto dell’Urss alla nascita della Comunità Europea. La tesi
fa aggio sulle ricerche del dissidente Vladimir Bukovskij, che ebbe modo di
indagare negli Archivi Segreti dell’ex impero comunista rilevando
le strane affinità che avvicinano dirigismo finanziario eurocratico e
centralismo sovietico. L’analisi è stimolante, anche se ci sembra sottovalutare
il ruolo positivo che la Russia
di Putin potrebbe svolgere nell’attuale scacchiere internazionale.
Gli
autori presentano in “medaglioni” biografico-intellettuali, personaggi che
ritengono sintonici al loro progetto culturale. Tra essi, il romanziere cattolico
Chesterton, inventore di Padre Brown, investigatore sui generis, che dismessi gli abiti e gli strumenti d’inchiesta
propri del razionalismo, si introduce nell’animo dei co-protagonisti delle sue avventure,
riuscendo a comprenderli a fondo. Tale capacità viene attribuita alla opzione
cattolica dello scrittore inglese, il quale vide nella Chiesa di Roma “…l’unica
religione antica ad essere così nuova” (p. 27). Estremamente importante è, tra le altre, la
figura del filosofo-contadino Gustav Thibon che, nei suoi scritti, presentò
“…la campagna come mondo rappacificato, segnato da quella penitenza che
permette la riconciliazione dell’uomo con se stesso, dunque con la creazione,
infine con il Creatore” (p. 38), o quella, rilevante su altro piano, di
Giovanni Guareschi. Sotto il profilo politico, la centralità di de Maistre e
della sua idea di contro-rivoluzione è riaffermata sia nel saggio a lui
dedicato, sia nello scritto relativo a Pat Buchanan, esponete del
conservatorismo repubblicano Usa, fermamente convito che il fronte contro cui
oggi è necessario battersi sia costituito dal laicismo che “…ha portato agli
eccessi del femminismo, dell’ambientalismo e del movimento gay oltre che
l’aborto, autentica ignominia della società umana” (p. 45).
Interessante è la ricostruzione storica
dell’affermarsi della Massoneria in Europa e in Italia, in particolare
l’analisi dei rapporti tra la società segreta e la Chiesa dopo che, nel 2007,
padre Rosario Esposito è stato accolto tra i fratelli. Informazioni poco note il lettore potrà trarre dal
capitolo relativo ai “Falsi miti del Novecento”, dove si legge di un Che Guevara
istitutore dei campi di correzione forzata a Cuba, del romanziere Gabriel
García Márquez e dei suoi rapporti strutturali con il Partito Comunista, di Martin
Luther King aduso al plagio di opere altrui e dedito al tradimento coniugale e,
soprattutto, dell’antisemitismo del presidente cileno Salvador Allende,
attestato dagli studi più recenti di Victor Farías.
Infine, non si può non condividere il giudizio degli autori sul
Sessantotto, la cui rivoluzione culturale spazzò via ogni residuo tradizionale
innescando l’accelerazione dei processi della globalizzazione omologante. Il
problema è che, a differenza di quanto Brienza ed Ebrahime ritengono, la resistenza
al nichilismo dispiegato non è nelle corde della sola tradizione cattolica.
Anzi! A nostro parere, essere cattolici vuol dire collocarsi dalla parte della
Tradizione in modo dimidiato.
Giovanni Sessa
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Le Serate di San Pietroburgo oggi
venerdì 25 luglio 2014
M.S.I. ed eversione nera. Si apre la stagione del revisionismo storiografico (di Giovanni Sessa)
L’esercizio dell’autoanalisi, sia
personale che comunitaria, è uno strumento utile, purché sia finalizzata a
propiziare la fuoriuscita da un periodo di crisi o di disagio. La “destra”
italiana (o ciò che ne resta, o che sorgerà dalle sue ceneri), allo stato dei
fatti, ne avrebbe davvero bisogno. Uno stimolo a che ciò avvenga, può essere rintracciato
nella recente pubblicazione, per i tipi di Solfanelli, di un volume scritto a
due mani da Ivan Buttignon e Mattia Zenoni. Si tratta di M.S.I. e terrorismo nero tra verità e montature (per ordini: edizionisolfanelli@yahoo.it
335-6499393, euro 14,00). Il testo è una ricerca sulla storia del M.S.I., dalla
nascita al suo dissolversi in AN, affrontata secondo diverse sfaccettature:
ideologica, correntizia, e financo attenta ai dati caratteriali ed emotivi dei
suoi protagonisti.
Gli autori utilizzano tanto la lettura
obiettiva dei documenti (tra essi vanno menzionate le interviste inedite di
personaggi quali Stefano delle Chiaie e dei fondatori di Democrazia Nazionale on. Renzo de’Vidovich e Giovanni Guarini),
così come la conoscenza in qualche modo diretta dell’ambiente delle destra
italiana, visto che Buttignon collabora con riviste d’area e Zenoni, nonostante
la giovane età, è stato consigliere comunale della Lega in un comune del Nord.
La ricerca storiografica, in queste pagine, non è mai soffocata dal primato del
dato obiettivo, ma animata e sostenuta da un rapporto empatico con l’oggetto
indagato. Il che, dal nostro punto di vista non è un limite, ma un pregio del
volume. Tale atteggiamento esegetico è indotto dall’urgenza che gli autori
avvertano e trasmettono al lettore accorto, di dover fornire risposte ai
quesiti ancora aperti in merito agli “anni di piombo” e al ruolo giocato in essi
dalla destra partitica. Fare chiarezza su personaggi del M.S.I., nell’ambito
ora ricordato, può infatti rivelarsi utile a compiere oggi scelte accorte e
politicamente proficue, in una situazione altrettanto drammatica ma certamente
altra rispetto a quella di allora.
Per conseguire l’obiettivo, gli autori,
nelle due parti che costituiscono il libro,
Analisi delle origini e delle tre “macrocomponenti” e Le altre correnti missine, ripercorrono gli albori della storia del
Movimento Sociale, rilevandone un’anima contraddittoria ed ambigua. Infatti, mentre
la componente della sinistra nazionale, in certi momenti interna, in altri
esterna al partito, rivendicava il lascito socializzatore e repubblichino del
fascismo, e con esso la sua vocazione rivoluzionaria, la destra interna, nelle
sue diverse opzioni, teorizzava e praticava l’inserimento parlamentare. Con
Michelini alla Segreteria nazionale, tale tendenza avrebbe agito per il
costituirsi in Italia di una “Grande Destra” conservatrice, capace di
condizionare in senso nazionale la DC. In tale
contesto, viene rilevato il camaleontismo almirantiano il quale, di volta in
volta, nelle tornate congressuali, si presentava come leader della corrente di sinistra per poi stringere accordi
“centristi” con la componente moderata.
In quest’ottica, la riconquista
della Segreteria da parte di Almirante sul finire degli anni Sessanta, portò a rilanciare il progetto della “Destra
Nazionale”, fondandolo, da un lato, sul ritorno nel M.S.I. di una parte degli
eretici “spiritualisti” di Ordine Nuovo, la componente che faceva capo a Pino
Rauti, e dall’altro stringendo un’alleanza politico-elettorale con i
monarchici. La nuova situazione non mutò l’atteggiamento generale, tenuto dai
vertici del partito fin dal 1946, nei confronti dell’estremismo: da un lato di
fronte ad atti violenti e/o episodi terroristici, prendere le distanze da essi
(esemplare, in questo senso, è il caso della morte dell’agente Marino nel
“giovedì nero” di Milano), per poi
continuare a coltivare la cultura anti-sistema nel mondo giovanile. Il che
rappresenta, agli occhi dei due studiosi, una pericolosa contraddizione mai
risolta.
In apposito paragrafo si affronta
l’analisi della corrente spiritualista che si richiamava al pensiero di Evola,
dalla vulgata giornalistica anni
Settanta, ritenuto ispiratore del terrorismo nero. In queste pagine si ricorda
l’assoluzione piena del pensatore da una accusa del genere, nei primi anni
Cinquanta, dopo gli attentati dei FAR, che gli costò il carcere per sei mesi. Chi
si sia davvero confrontato con le opere di Evola, ben sa che in esse non vi è
il benché minimo invito alla violenza. Come ha esemplarmente mostrato G. de
Turris nel suo Elogio e difesa di J.
Evola (Mediterranee,1998) se qualcuno ha pensato di agire attraverso la
violenza in nome della dottrina evoliana, è stato evidentemente un pessimo
discepolo. Ad Evola non possono attribuirsi responsabilità di sorta in tema di
terrorismo.
Quali, quindi, le conclusioni in merito ai rapporti tra terrorismo e
M.S.I.? Gli autori sostengono che gli scontri di piazza cui, per decenni,
parteciparono anche i giovani del partito, per difendere la loro presenza
politica e, a volte, la loro sopravvivenza fisica (aggiungo io), fecero
ritenere a qualcuno che lo Stato fosse debole e potesse essere colpito: “…con
la complicità di qualche camerata del M.S.I.” (p. 182). Le risultanze
processuali relative alla strage di Peteano, si dice nell’ultimo capitolo,
misero in luce che i coinvolti nella vicenda erano organici al Movimento Sociale
e che lo stesso Almirante avrebbe inviato in Spagna all’autore della strage
circa 35.000 dollari statunitensi per far operare Cicuttini (il telefonista del
gruppo) alle corde vocali ed eludere, così, la sua identificazione. Buttignon
precisa: “…faccio fatica a immaginare uno scenario del genere” (p. 179), e noi
condividiamo il suo scetticismo. Non viene sottaciuto neppure il coinvolgimento
di Rauti nella strage di Piazza Fontana e in altri episodi terroristici del
periodo, accuse dalle quali, come si sa, in seguito fu prosciolto.
Oggi è possibile trarre un bilancio storico-politico della “strategia
della tensione” e degli “anni di piombo”. Gli unici sconfitti, oltre
naturalmente alle moltissime vittime innocenti, furono coloro che ritenevano di
combattere il sistema, da destra o da sinistra. I vincitori furono i “poteri
forti”, i loro rappresentanti, che di quei drammi si servirono per consolidare,
sul sangue di molti, la loro egemonia. E’ bene, quindi, come fa il libro
presentato, indagare anche in casa propria, individuare eventuali
responsabilità, per poter tornare ad agire politicamente, ma a condizione che
si tenga conto del clima in cui si trovò a vivere chi militava a “destra”e dei
molti che finirono ingiustamente in carcere per le montature giudiziarie ordite
contro di loro, e tardivamente assolti da accuse infamanti.
Giovanni Sessa
mercoledì 16 luglio 2014
A Settant’anni dalla morte di Giovanni Gentile (di Giovanni Sessa)
Nella ricorrenza del settantesimo
anniversario dell’assassinio di Giovanni Gentile, si è finalmente tornati a
parlare del pensiero e della vita del filosofo di Castelvetrano. Saggi,
articoli e diversi libri hanno riaperto il dibattito su questa eminente figura
di filosofo, di politico, di pedagogista e di organizzatore culturale. Tra i
tanti, ci preme qui segnalare e discutere il contributo fornito all’esegesi
dell’attualismo da Primo Siena. Si tratta del volume, Giovanni Gentile. Un italiano nelle intemperie, nelle librerie per
l’editore Solfanelli (per ordini: edizionisolfanelli@yahoo.it 335/6499393; euro 14,00). Il testo è
strutturato in modo complesso e organico. Infatti, il saggio introduttivo
dell’autore consta di tre momenti, nei quali vengono presentati i più salienti tratti
della biografia e della filosofia gentiliana, non escluso il rilevante
contributo pedagogico del pensatore e
l’analisi dei principali interventi critici finora prodotti attorno alla sua
opera. Segue un’ampia raccolta antologica di testi gentiliani, davvero
meritevole di segnalazione, non soltanto per le accorte scelte messe in atto
nella selezione, capaci di dare un quadro complessivo dell’attualismo, in
particolare della sua teoria politica, ma perché ci pare sempre più urgente
stimolare l’ambiente intellettuale della “destra” italiana al confronto con la
filosofia, rispetto alla quale, e non solo nell’ultimo periodo, registriamo un’
improvvida idiosincrasia. L’Appendice, infine, raccoglie tre saggi: il primo di
Leonardo Castellani, gesuita argentino, che si intitola Giovanni Gentile filosofo del fascismo; il secondodi uno studioso
di origini romene, ma spagnolo d’adozione, allievo del filosofo alla “Sapienza”
di Roma, George Uscatescu, affronta il tema Giovanni
Gentile ed Ernst Jünger e i nessi teorici che legherebbero la figura dell’Operaio alle tematiche dell’umanesimo
del lavoro; il terzo è il testo della relazione che Armando Carlini tenne in un
Convegno del 1955 a
Pisa, intitolata Il pensiero politico di
Giovanni Gentile.
Questa la struttura del volume di
Siena. Quale, invece, la sua lettura dei dati biografici e della filosofia
attualista? E’ presto detto: l’autore mira innanzitutto a valorizzare il
sacrificio di Gentile, il Gentile uomo e politico, a presentare l’estrema
coerenza di un magistero testimoniato nella vita vissuta: “Un magistero che
concepisce la vita come incessante combattimento per coloro che…sanno sfidare
le intemperie” (p. 74). La morte, per
mano di gappisti fiorentini, colse il filosofo il 15 Aprile del 1944, nei
pressi del cancello di Villa Montalto, dopo che, in conseguenza della
prolusione che egli aveva tenuto il 19 marzo in occasione della celebrazione
del bicentenario vichiano a Firenze, Radio Londra aveva sollecitato il
sollevarsi della “santa rabbia” nei suoi confronti, nei confronti di colui che
veniva definito un ex-filosofo. In quei tragici mesi, Gentile era impegnato
nella revisione del proprio testamento spirituale, Genesi e struttura della società e aveva già pronunciato, il 24
giugno 1943, il discorso in Campidoglio, con il quale aveva chiesto agli
italiani, in un momento drammatico, di non perdersi nel particulare, ma di rinvenire, ancora una volta, nell’azione spesa
per la Patria
e il bene comune, il senso più profondo dell’universale.
Ci
sia consentita una breve chiosa: in questa doverosa apologia del sacrificio del
pensatore di Castelvetrano, ci pare che Siena tributi gli “onori delle armi”,
oltre che al filosofo, a se stesso e a quanti della sua generazione seppero,
non soltanto alla fine della seconda guerra mondiale, ma in tutto il dopoguerra,
“tenersi in piedi”, proprio come Gentile. Il che ci pare non solo legittimo, ma
assolutamente doveroso e necessario. Chi scrive appartiene ad un’altra
generazione, ma a Siena e ai “Suoi” deve davvero molto in termini di
testimonianza ideale e spirituale.
L’esegesi della filosofia
politica di Gentile muove dalla constatazione che essa si fonda sulla
comprensione che lo Stato: “…non si manifesta inter homines, ma in
interiore homine” (p. 17), e quindi la formulazione dello Stato come
volontà universale contraddice l’idea illuminista dello Stato quale risultato del
“contratto sociale”. Società e Stato sono volere in atto, volontà morale, per
cui la creazione dello Stato, del Politico, l’individuo deve possederlo in sé
ed esserne cosciente. L’accusa di statolatria mossa alla dottrina gentiliana è
infondata. Infatti, lo scrittore italo-cileno avverte: “…che se questo Stato
sembra assorbire l’individuo, e se in esso l’autorità sembra risucchiare la
libertà…si può rovesciare la questione e sostenere che l’autorità sia assorbita
nella libertà e sia lo stesso individuo ad inghiottire lo Stato” (p. 19) Siena,
inoltre, prende le distanze dalla sinistra attualista di Spirito, in quanto
sostiene che la definizione di Gentile dei comunisti come “corporativisti impazienti”,
non implicava alcun apertura al marxismo. Anzi! La dottrina corporativa aveva
assunto in sé quelle problematiche che il comunismo si era mostrato incapace di
risolvere. Inoltre, ciò che distingue in modo chiaro la posizione di Gentile
dal marxismo, secondo l’autore, è da individuarsi nel fatto che Marx considera
l’uomo: “…sul piano meramente temporale evitando di collocarlo in una
prospettiva metafisica” (p. 21). Ed è questa medesima considerazione etica
dell’agire umano, mutuata da Mazzini e dal Risorgimento, che induce Gentile a
marcare ulteriormente la distanza dal marxismo e a fare della “rivoluzione” fascista
l’alternativa del comunismo e del liberal-capitalismo. La propensione
etico-spirituale dell’attualismo, indurrà Gentile ad elaborare l’umanesimo del
lavoro e a sviluppare una pedagogia attenta ai bisogni del discente.
Con l’umanesimo del lavoro il filosofo
concesse all’attività umana, compresa quella manuale e non creativa, di essere
connotata dalla medesima dignità fino ad allora attribuita alla prassi
intellettuale: ogni uomo acquisisce, alla luce di tale concezione, la
specificità dell’artifex. Sul piano
pedagogico, l’attualismo sostenne l’educazione essere arte e non racchiuse
l’età evolutiva ad una sola stagione dell’esistenza umana. Essa coincide: “…con
l’intera esistenza dell’uomo: s’impara vivendo, cioè pensando” (p. 39). Il
maestro insegnando si educa, in quanto docente e discente sono momenti di un
unico processo. Ciò condusse Gentile a credere fermamente nel rispetto pedagogico
dell’innocenza dell’allievo. Anche in questo ambito, la Sua scuola dell’esempio e
della serietà, potrebbe oggi svolgere il ruolo, ricorda Siena, di vero e
proprio paradigma per una istituzione che ha ormai fatto della permissività
indiscriminata il suo solo punto di riferimento.
Per le ragioni suddette, l’autore ritiene
che la filosofia di Gentile, in particolare nei suoi esiti e nonostante le
premesse immanentiste e moniste, abbia in sé un Itinerarium mentis in Deum. Per tale ragione, la chiave di volta
della lettura di Siena è rintracciabile nello scritto di Carlini contenuto in
Appendice, o più in generale, nella esegesi condotta in argomento da Sciacca.
Insomma: “L’itinerario dall’uomo a Dio, nella ricerca gentiliana, viene…profondamente
confermato: dal particolare all’universale e dall’universale all’Ente Divino”
(p. 30). Nel pensatore di Castelvetrano è, infatti, presente, secondo
l’interpretazione di Sciacca che Siena pare condividere, un anelito verso la
trascendenza, una sorta di “felice contraddizione” che, alla lunga, avrebbe indotto
tale filosofia al superamento dell’immanentismo connotante l’intero percorso dell’idealismo
moderno.
E’storicamente vero che alcuni allievi di
Gentile hanno tentato di vincolare il puro
divenire attuale ad una prospettiva ferma e rigida, negante la radicale
immanenza attualista, riammettendo per questa via la fede in Dio. Tra essi
vanno ricordati, in prospettive teoretiche diverse, Guzzo, Carlini, Sciacca e
lo stesso Bontadini, ancor più ardito degli altri, che si provò a ri-pensare
l’Assoluto come Summum Ens. A differenza di Siena crediamo che questi
tentativi furono, però, una regressio
rispetto alle posizioni del maestro. Se un merito filosofico va attribuito a
Gentile è quello di aver definitivamente liberato l’idealismo da ogni residuo
di idea di fondamento e da ogni supina accettazione della concezione del
soggetto, propria della filosofia moderna. Ora non si tratta, dal crinale
speculativo conquistato da Gentile, di“tornare indietro”, di abbandonare la
posizione, ma di guardare in direzione di nuove prospettive capaci di indurre
il superamento della dimensione meramente gnoseologica dell’attualismo. Allo
scopo sarebbe necessario, a nostro parere, porsi all’ascolto delle due più
originali e potenti vie transattualiste
proposte agli uomini del secolo scorso, ma attualissime, quelle di Julius Evola
e di Andrea Emo.
Nonostante questa differenza interpretativa, riteniamo il contributo di
Siena estremamente stimolante. Il momento attuale richiede il serio contributo
teorico-politico delle diverse anime intellettuali che si battono contro il
dominio indiscriminato del pensiero Unico e dell’Utile. Siena, in modo
coerente, rigoroso ed organico, oramai da una vita, sta contribuendo a far si
che questa battaglia sia almeno combattuta. In un momento di disarmo
generalizzato, per un’intera area intellettuale, ciò non è poco. Anche con
questo libro che vivamente consigliamo ai lettori, tornando a farci discutere di Gentile, egli ci
invita a dialogare in vista di Altre Sintesi.
Giovanni Sessa
domenica 16 marzo 2014
RECENSIONE a LA SPADA DI PERSEO di Primo Siena (a cura di Paolo Rizza)
Se la civiltà è il risultato del provvidenziale convergere dei suoi peculiari aspetti lungo un simbolico asse verticale che ne preordina la finalizzazione trascendente, non deve sembrare casuale che la preoccupazione di ricongiungere l’esercizio del potere a valenze di carattere metafisico sia riemersa in concomitanza con il propagarsi di una cultura corrosa dal mistificante riduzionismo di una ragione sottratta alle predisposizioni intuitive e vivificatrici dell’intelligenza.
La metapolitica, declinata in una prospettiva che riconosce la necessità di subordinare le variegate articolazioni storiche del mondo tradizionale ai principi di un ordine scaturente dalla sapienza creatrice del Verbo, addita i criteri validi per una demistificazione della pretesa di ridurre la politica a strumento di realizzazione di velleitarie finzioni concettuali, generate da una aprioristica razionalizzazione della realtà.
Tale progetto, capillarmente concretizzatosi in conseguenza delle premesse antropocentriche e razionalistiche del mondo moderno, si è istituzionalizzato nel perverso trionfo della “criptopolitica” che, dietro le parvenze di fumose presupposizioni ideologistiche, sancisce il dominio incontrastato del potere economico-finanziario.
La coraggiosa riproposizione dei canoni di una disciplina che riafferma la tradizionale dipendenza della politica dalla provvidenzialità di un ordine capace di determinarne finalisticamente la natura e le funzioni, scompagina le consuetudini ottusamente e pervicacemente preclusive di una falsa cultura, ormai approdata alle conclusioni parossistiche e aberranti del relativismo.
In esplicita adesione alla suaccennata prospettiva metapolitica, sono concepiti gli audaci percorsi culturali raccolti da Primo Siena nel volume La Spada di Perseo, pubblicato dall’editore Solfanelli nel 2013 e apparso in versione spagnola alcuni anni prima; pur nel doveroso rispetto per la nobile testimonianza civica e culturale dell’Autore, va notato che il libro si presta ad alcune considerazioni critiche, relative ai termini non sempre chiarificatori nei quali vi si prospetta il plesso delle tendenze determinanti la direzione catagogica propria della modernità.
Proponendo una disamina delle molteplici distorsioni indotte dalla “cripto politica” e dalla sua intenzionale propensione a favorire la stabilizzazione di un potere demagogicamente irrispettoso delle naturali diversificazioni dei corpi intermedi, Siena imputa giustamente alla democrazia moderna il demerito di una radicale falsificazione dei fondamentali concetti politici, surrogati da una rappresentanza disorganica, conforme agli intenti prevaricatori della speculazione mercantilistica e creditizia.
A tale riguardo, egli ritiene che la democrazia antica potrebbe rappresentare un utile correttivo alle copiose aberrazioni promosse dal livellamento generalizzato e dalla centralizzazione oligarchica: pur tuttavia, si deve riconoscere che la necessità di contestualizzare e differenziare i particolari ambiti storico-politici nei quali si palesarono le tendenzialità congenite e rappresentative della democrazia, non pregiudica la loro derivazione dai logori schematismi di una decadente cultura nominalistica e relativistica che, ispirandosi all’insana pretesa di travolgere i fondamenti del sapere nella sconsideratezza di una insensata critica demolitrice, fu magistralmente confutata dalla vigorosa intelligenza speculativa dei grandi pensatori del periodo classico.
La democrazia, indipendentemente dalle sue diverse configurazioni storiche, istituzionali e normative, è intimamente connessa a preconcette implicazioni scettiche e materialistiche, in conseguenza delle quali si rivela caratterizzata dall’inclinazioni a privilegiare irresponsabilmente le decisioni vincolate ai crismi ingannevoli del consenso maggioritario sul ponderato giudizio di persone competenti e sollecite del bene comune.
Come ha opportunamente osservato Siena, la globalizzazione, che ne costituisce l’esito ultimo, rappresenta la parodistica contraffazione dell’autentico universalismo, che fu la mirabile culminazione della civiltà medioevale.
Riprendendo un giudizio elaborato da Giovanni Papini in base a considerazioni di natura prevalentemente estetico- letteraria e volto ad avallare la tesi di una sostanziale continuità tra Medioevo e Rinascimento, Siena tende ad accreditare nel pensiero politico dell’Alighieri una potente e significativa espressione anticipatrice degli sviluppi del mondo culturale umanistico.
In proposito, occorre rilevare che la postulazione di una fondamentale unitarietà di prospettive tali da accomunare e congiungere due periodi storico- culturali tanto diversi, è smentita dai presupposti di quel universalismo ove – come egli scrive- “le diversità non sono appianate, bensì vengono assunte dalla struttura gerarchica dell’Impero”.
La concezione politica dantesca, inquadrata in una profonda sintonia con le strutture politiche e i fondamenti dogmatici della Cristianità medievale, presenta innegabili difformità da qualunque valorizzazione delle pressanti tendenze centrifughe che concorsero a incrinarne l’interna dinamicità, impedendo che la gerarchica integrazione delle diversificate realtà territoriali e societarie potesse inserirsi e progredire nella compaginata sintesi istituzionale di un Impero, inteso quale cardine indispensabile di giustizia e di civiltà.
Il declino delle potestà universali provvidenzialmente atte a suscitare e a ordinare la multiforme e stratificata varietà politico- giuridica del Medioevo, il ruolo vieppiù determinante conseguito dai particolarismi regionali e nazionali, la dissoluzione della composta sintesi ideale che predisponeva l’intelligenza a intendere le diverse realtà contingenti in rapporto alla contemplazione dei Misteri della Fede, delineano la fisionomia del Rinascimento, che persegue il proposito di ricongiungersi alla classicità al di fuori del quadro intellettuale tipico del periodo precedente; la reinterpretazione del pensiero greco riflette la temperie di una idealizzazione tendenzialmente volontaristica della potenza creatrice dell’individuo, contrapponendosi palesemente ai canoni del tradizionale realismo cattolico.
Il tentativo di valutare il Rinascimento come prosecuzione dello spirito medievale, si colloca in una angolazione che racchiude unitariamente una sintesi prospettica tra i giudizi critici di Giovanni Papini e la posizione metapolitica di Silvano Panunzio: esso apparendo pregiudizialmente condizionato da una sottovalutazione della consistenza del naturalismo, affermatosi come la dimensione speculativa più caratterizzante della cultura rinascimentale, non può validamente cautelarsi contro il pericolo di ascrivere al termine “tradizione” ambigue connotazioni storicistiche.
Coerente esemplificazione di un approccio ermeneutico in cui esiti rivelano la problematicità di assunti non plausibili, è la rilettura del pensiero politico di Machiavelli nei termini di un realismo dotato di valenze conformi alla fede cristiana e culminante nella visione provvidenzialistica di Gian Battista Vico.
La scarsa considerazione dei processi che valsero a demolire l’architettura organicamente universalistica del mondo medievale, si associa alla non sufficiente differenzazione tra il realismo della philosophia perennis e lo spregiudicato amoralismo pragmatistico di una filosofia politica affermativa ai suoi orizzonti metafisici.
Inoltre, la questione relativa ai supposti prolungamenti della concezione politica del Segretario fiorentino nel “spiritualismo storico” di Vico, potrebbe proficuamente ridurre a valutare la maggiore o minore fondatezza delle interpretazioni neoidealistiche del suo pensiero.
Senza pretendere di esaurire la complessità dei temi affrontati nel libro, si può affermare conclusivamente che la riproposizione di una teologia politica attinta alla sapienza nel Magistero cattolico, impone il compito imprescindibile di smascherare le diverse forme statuali derivate dal principio d’immanenza, per riscoprire l’integralità di una visione rettamente tradizionale della vita e del mondo.
Paolo Rizza
Primo Siena
LA SPADA DI PERSEO
Itinerari metapolitici
Ediizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-836-6]
Pagg. 264 - € 18,00
http://www.edizionisolfanelli.it/laspadadiperseo.htm
La metapolitica, declinata in una prospettiva che riconosce la necessità di subordinare le variegate articolazioni storiche del mondo tradizionale ai principi di un ordine scaturente dalla sapienza creatrice del Verbo, addita i criteri validi per una demistificazione della pretesa di ridurre la politica a strumento di realizzazione di velleitarie finzioni concettuali, generate da una aprioristica razionalizzazione della realtà.
Tale progetto, capillarmente concretizzatosi in conseguenza delle premesse antropocentriche e razionalistiche del mondo moderno, si è istituzionalizzato nel perverso trionfo della “criptopolitica” che, dietro le parvenze di fumose presupposizioni ideologistiche, sancisce il dominio incontrastato del potere economico-finanziario.
La coraggiosa riproposizione dei canoni di una disciplina che riafferma la tradizionale dipendenza della politica dalla provvidenzialità di un ordine capace di determinarne finalisticamente la natura e le funzioni, scompagina le consuetudini ottusamente e pervicacemente preclusive di una falsa cultura, ormai approdata alle conclusioni parossistiche e aberranti del relativismo.
In esplicita adesione alla suaccennata prospettiva metapolitica, sono concepiti gli audaci percorsi culturali raccolti da Primo Siena nel volume La Spada di Perseo, pubblicato dall’editore Solfanelli nel 2013 e apparso in versione spagnola alcuni anni prima; pur nel doveroso rispetto per la nobile testimonianza civica e culturale dell’Autore, va notato che il libro si presta ad alcune considerazioni critiche, relative ai termini non sempre chiarificatori nei quali vi si prospetta il plesso delle tendenze determinanti la direzione catagogica propria della modernità.
Proponendo una disamina delle molteplici distorsioni indotte dalla “cripto politica” e dalla sua intenzionale propensione a favorire la stabilizzazione di un potere demagogicamente irrispettoso delle naturali diversificazioni dei corpi intermedi, Siena imputa giustamente alla democrazia moderna il demerito di una radicale falsificazione dei fondamentali concetti politici, surrogati da una rappresentanza disorganica, conforme agli intenti prevaricatori della speculazione mercantilistica e creditizia.
A tale riguardo, egli ritiene che la democrazia antica potrebbe rappresentare un utile correttivo alle copiose aberrazioni promosse dal livellamento generalizzato e dalla centralizzazione oligarchica: pur tuttavia, si deve riconoscere che la necessità di contestualizzare e differenziare i particolari ambiti storico-politici nei quali si palesarono le tendenzialità congenite e rappresentative della democrazia, non pregiudica la loro derivazione dai logori schematismi di una decadente cultura nominalistica e relativistica che, ispirandosi all’insana pretesa di travolgere i fondamenti del sapere nella sconsideratezza di una insensata critica demolitrice, fu magistralmente confutata dalla vigorosa intelligenza speculativa dei grandi pensatori del periodo classico.
La democrazia, indipendentemente dalle sue diverse configurazioni storiche, istituzionali e normative, è intimamente connessa a preconcette implicazioni scettiche e materialistiche, in conseguenza delle quali si rivela caratterizzata dall’inclinazioni a privilegiare irresponsabilmente le decisioni vincolate ai crismi ingannevoli del consenso maggioritario sul ponderato giudizio di persone competenti e sollecite del bene comune.
Come ha opportunamente osservato Siena, la globalizzazione, che ne costituisce l’esito ultimo, rappresenta la parodistica contraffazione dell’autentico universalismo, che fu la mirabile culminazione della civiltà medioevale.
Riprendendo un giudizio elaborato da Giovanni Papini in base a considerazioni di natura prevalentemente estetico- letteraria e volto ad avallare la tesi di una sostanziale continuità tra Medioevo e Rinascimento, Siena tende ad accreditare nel pensiero politico dell’Alighieri una potente e significativa espressione anticipatrice degli sviluppi del mondo culturale umanistico.
In proposito, occorre rilevare che la postulazione di una fondamentale unitarietà di prospettive tali da accomunare e congiungere due periodi storico- culturali tanto diversi, è smentita dai presupposti di quel universalismo ove – come egli scrive- “le diversità non sono appianate, bensì vengono assunte dalla struttura gerarchica dell’Impero”.
La concezione politica dantesca, inquadrata in una profonda sintonia con le strutture politiche e i fondamenti dogmatici della Cristianità medievale, presenta innegabili difformità da qualunque valorizzazione delle pressanti tendenze centrifughe che concorsero a incrinarne l’interna dinamicità, impedendo che la gerarchica integrazione delle diversificate realtà territoriali e societarie potesse inserirsi e progredire nella compaginata sintesi istituzionale di un Impero, inteso quale cardine indispensabile di giustizia e di civiltà.
Il declino delle potestà universali provvidenzialmente atte a suscitare e a ordinare la multiforme e stratificata varietà politico- giuridica del Medioevo, il ruolo vieppiù determinante conseguito dai particolarismi regionali e nazionali, la dissoluzione della composta sintesi ideale che predisponeva l’intelligenza a intendere le diverse realtà contingenti in rapporto alla contemplazione dei Misteri della Fede, delineano la fisionomia del Rinascimento, che persegue il proposito di ricongiungersi alla classicità al di fuori del quadro intellettuale tipico del periodo precedente; la reinterpretazione del pensiero greco riflette la temperie di una idealizzazione tendenzialmente volontaristica della potenza creatrice dell’individuo, contrapponendosi palesemente ai canoni del tradizionale realismo cattolico.
Il tentativo di valutare il Rinascimento come prosecuzione dello spirito medievale, si colloca in una angolazione che racchiude unitariamente una sintesi prospettica tra i giudizi critici di Giovanni Papini e la posizione metapolitica di Silvano Panunzio: esso apparendo pregiudizialmente condizionato da una sottovalutazione della consistenza del naturalismo, affermatosi come la dimensione speculativa più caratterizzante della cultura rinascimentale, non può validamente cautelarsi contro il pericolo di ascrivere al termine “tradizione” ambigue connotazioni storicistiche.
Coerente esemplificazione di un approccio ermeneutico in cui esiti rivelano la problematicità di assunti non plausibili, è la rilettura del pensiero politico di Machiavelli nei termini di un realismo dotato di valenze conformi alla fede cristiana e culminante nella visione provvidenzialistica di Gian Battista Vico.
La scarsa considerazione dei processi che valsero a demolire l’architettura organicamente universalistica del mondo medievale, si associa alla non sufficiente differenzazione tra il realismo della philosophia perennis e lo spregiudicato amoralismo pragmatistico di una filosofia politica affermativa ai suoi orizzonti metafisici.
Inoltre, la questione relativa ai supposti prolungamenti della concezione politica del Segretario fiorentino nel “spiritualismo storico” di Vico, potrebbe proficuamente ridurre a valutare la maggiore o minore fondatezza delle interpretazioni neoidealistiche del suo pensiero.
Senza pretendere di esaurire la complessità dei temi affrontati nel libro, si può affermare conclusivamente che la riproposizione di una teologia politica attinta alla sapienza nel Magistero cattolico, impone il compito imprescindibile di smascherare le diverse forme statuali derivate dal principio d’immanenza, per riscoprire l’integralità di una visione rettamente tradizionale della vita e del mondo.
Paolo Rizza
Primo Siena
LA SPADA DI PERSEO
Itinerari metapolitici
Ediizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-836-6]
Pagg. 264 - € 18,00
http://www.edizionisolfanelli.it/laspadadiperseo.htm
sabato 28 settembre 2013
Novità: STATO DI DISSOCIAZIONE di Mauro Cosmai
Mauro CosmaiSTATO DI DISSOCIAZIONEUna psicopatologia italiana |
È possibile formulare una diagnosi di malattia mentale per un’intera nazione, sia pure con le ovvie eccezioni? Sì, quando la stragrande maggioranza degli individui (medi) fa suoi i messaggi ambivalenti e schizoidi di sistemi politici, religiosi ed economici accettati supinamente. In più caratteristiche geopolitiche, linguistiche ed economiche veramente uniche foraggiano questi “sdoppiamenti” portando a una vera e propria sindrome dissociativa collettiva, a una realtà sociale schizoide (se non schizofrenica) che non ha eguali perlomeno nel mondo civile. Attraverso una serie di esempi, sintomi chiarissimi del disagio mentale nostrano, interpretati correttamente dal punto di vista scientifico ma esposti in maniera chiara e divulgativa (compresa una sottile vena d’ironia) questo libro stila un diagnosi indiscutibile di un paese dove i sani di mente, sempre più rari, vivono sempre più male.
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lunedì 2 settembre 2013
lunedì 26 agosto 2013
Recensione di Marcello Veneziani a INCONTRI NELLA TERRA DI MEZZO di Primo Siena (Edizioni Solfanelli)
Alla politica serve l'anima. O fallirà
La visione spirituale della vita è stata a lungo alla base di idee e azione. Oggi ce ne siamo dimenticati
La visione spirituale della vita è stata a lungo alla base di idee e azione. Oggi ce ne siamo dimenticati
Marcello Veneziani - Lun, 26/08/2013 - 09:33
Se uno dice oggi spiritualismo politico, la gente non capisce, qualcuno si mette a ridere. Spiritualismo è diventata già da sé una parola incomprensibile, tra lo spiritico e il conventuale. A parte il riferimento alla spiritualità in ambito religioso o new age, l'unica accezione corrente e comprensibile a tutti resta un genere musicale che evoca lo schiavismo, lo spiritual. Per il resto, sostituito il cristiano Spirito Santo con l'hegeliano Spirito del Tempo, si è via via capovolto in tempo senza spirito. Al più lo spirito è materia per la psicanalisi. Parole che indicavano contenuti, visioni, stati d'animo diventano vuote, insignificanti, perfino grottesche, come se un'ottusità di ritorno avesse chiuso spazi di pensiero, porte d'anima e campi di valori. Ma spirituale diventa ancor più inverosimile e alieno se correlato alla politica. Che vuol dire spiritualismo politico? Vuol dire farsi guidare nelle scelte e nei comportamenti da una visione spirituale della vita. E opporsi a una concezione materialistica, utilitaristica, opportunistica della politica. In pratica a un arco pressocché onnicomprensivo della politica contemporanea, dalla sinistra di derivazione radicale e marxista allo scientismo e al liberismo, dal razzismo - che è materialismo biologico, anzi zoologico - al dominio planetario della tecnica e della finanza.
Ho ripensato allo spiritualismo politico leggendo un libro di Primo Siena, Incontri nella terra di mezzo. Profili del pensiero differente (Solfanelli, pagg. 215, euro 15). Siena è stato un intellettuale militante nella destra spiritualista del dopoguerra, dopo una giovanile esperienza nella Repubblica sociale. Lasciò l'Italia per andare a insegnare all'estero e da alcuni decenni vive in Sudamerica, a Santiago del Cile. La sua lunga lontananza dall'Italia ha salvaguardato (o ibernato, secondo i punti di vista) la sua concezione etica e spirituale fermandola agli anni della sua giovinezza. In questo libro, come in altri da lui scritti, Siena compone un breve atlante dello spiritualismo politico passando per Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Julius Evola, Marino Gentile, Guido Manacorda, Attilio Mordini, Silvano Panunzio, Michele Federico Sciacca, Ferdinando Tirinnanzi, Emilio Bodrero, Vintila Horia, Russel Kirk, Romano Guardini, Charles Maurras, Carlo Alberto Disandro. Oltre questi autori, a cui dedica ampi profili, Siena richiama tra le sue pagine altri pensatori e scrittori come Armando Carlini, Padre Agostino Gemelli, Padre Raimondo Spiazzi, Carmelo Ottaviano, Domenico Giuliotti, Augusto del Noce, Umberto Padovani, Massimo Scaligero, Camillo Pellizzi, Vittorio Vettori, Antonino Pagliaro, Adolfo Oxilia e altri. E cita nell'ambito dello spiritualismo politico alcuni sodali di gioventù, da Giano Accame a Mario Marcolla, da Fausto Gianfranceschi a Roberto Melchionda, da Enzo Erra a Piero Buscaroli, da Pino Rauti a Franco Petronio, da Fausto Belfiori a Silvio Vitale, da Gino Agnese a Piero Vassallo, e altri ancora.
Il tratto comune di questo panorama in apparenza eterogeneo è appunto il primato della visione spirituale, non solo d'ispirazione cattolica. I riferimenti storici e ideali della visione politica di Siena, che negli anni cinquanta fondò e diresse la rivista Cantiere e poi curò con Gaetano Rasi la rivista Carattere, sono situati tra Josè Antonio Primo de Rivera e Corneliu Zelea Codreanu. Capi perdenti di uno spiritualismo eroico, morti sul campo per le loro idee. Non mancano i riferimenti politici al Msi, ma dei suoi leader politici Siena ne accenna solo di sfuggita, riservando solo a Nino Tripodi e Beppe Niccolai giudizi positivi. Questa corrente di pensiero, che solo in parte può definirsi come «cultura di destra», in realtà attraversa l'esperienza politica della destra neofascista ma non vi si identifica. E gli autori prima richiamati non possono certo ridursi a quel contesto politico o partitico. Ora, la corrente militante dello spiritualismo politico finisce, come è inevitabile, con la fine della loro esperienza storica. Ma le opere disseminate lungo il Novecento da autori e pensatori spiritualisti sono state rimosse e cancellate, come se non fossero mai esistite. Eppure costituiscono un tratto saliente della cultura italiana del secolo scorso. Lo spiritualismo, anzi, ha permeato il pensiero italiano assai più che il materialismo storico e il radicalismo, ma anche più dell'utilitarismo e del pragmatismo, del liberalismo e degli altri filoni di pensiero scientifici e strutturalisti, analitici ed esistenzialisti. E non solo: per un secolo almeno la scuola pubblica e l'università sono state permeate dall'umanesimo spiritualista. Missione dei docenti era educare i ragazzi a una concezione spiritualista ben riassunta nel dantesco «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». Non mancava l'abuso retorico e «nozionista» dello spiritualismo in verisone scolastica che lo riduceva a manierismo e astrazione.
Siena definisce il filone spiritualista come pensiero differente o pensiero forte, in opposizione al predominante pensiero debole, conformista e nichilista. Lo spiritualismo politico è per lui permeato da un realismo metafisico e cristiano. La domanda che resta dopo la lettura del libro di Siena è se questo così ampio spiritualismo sia solo un reperto del passato, una traccia storica, affettiva e culturale di un pensiero ormai tramontato, legato ad un tempo ormai improponibile ed esaurito nella gran fiammata del novecento. O se invece non sia da consegnare a una passione antiquaria e nostalgica, ma possa essere ripensato oggi e riproposto domani, con nuovi percorsi e nuove linee di pensiero, nuovi autori e nuovi linguaggi. E la domanda si complica se si vuol dare una connotazione o una ricaduta politica a questa linea di pensiero che appare così inagibile prima che inattuale. Il dubbio finale è se si possa parlare oggi di spiritualismo, di visione spirituale della vita. Io credo di sì nonostante tutto, e il naufragio dei pensieri «corretti» e dei canoni ideologici che lo affossarono ne è ulteriore conferma. Anzi, si può arrivare a dire che una visione della vita o ha una sua matrice spirituale o visione non è. Ma l'impresa va tentata; nella peggiore delle ipotesi gioverà almeno allo spirito di chi la tenta, nella migliore lascerà qualche traccia in altre anime e produrrà qualche effetto nel pensiero e nella vita di una civiltà. E, comunque, se l'impresa è ardua e temeraria, è una ragione in più per tentarla. Il risveglio dello spirito nell'epoca degli automi.
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venerdì 7 giugno 2013
L' "UCRONIA" , CONDIZIONALE DELLA STORIA (DALL'ULTIMO MUSSOLINI AL DIBATTITO SUL PRESIDENZIALISMO), di ENZO NATTA
Presidenzialismi
L’ "UCRONIA", CONDIZIONALE DELLA STORIA
Dibattiti e periodi ipotetici del terzo tipo
****
Presidenzialismo, semipresidenzialismo, cancellierato, elezione diretta del capo dello Stato e chi più ne ha più ne metta. Il dibattito sulle riforme istituzionali si è riacutizzato nelle discussioni sulla figura di un premier allineato con le altre democrazie occidentali e che possa disporre del decreto legge senza essere sottoposto al beneplacito del presidente della Repubblica.
L'inevitabile “querelle” che ne è conseguita ha spostato l'ago della bussola anche sul piano dell'indagine storiografica con studi e interventi che hanno esaminato questo aspetto focalizzando l'attenzione sulla Repubblica di Salò. Il teorema dell'ucronia ha facilitato il gioco. Che cos'è l'ucronia? E' la scienza che riscrive la storia usando il condizionale, procedendo a furia di se, ricostruendo le vicende stpriche a base di ipotesi, formulando una storia virtuale e controfattuale, che nel 1876 il filosofo francese Charles Renouvier cercava di contrapporre allo storicismo hegeliano secondo il quale il tracciato della storia è uno solo e non si possono opporgliene altri. Insomma, una serie di varianti tipo quelle adottate da Philip K. Dick inThe Man of the High Castle, in cui si immagina che le forze dell'Asse avessero vinto la guerra.
Su questo terreno si sono mossi anche giuristi e costituzionalisti partendo dal presupposto suggerito da Marc Bloch: “La storia è una scienza in divenire ed è per questo che è viva. Il suo oggetto fondamentale è il cambiamento”. Tra questi esperti in materia figura Primo Siena con La perestroika dell'ultimo Mussolini (Solfanelli. Chieti, 2022. Pagg. 284. € 19,00), che, come indicato nel sottotitolo “Dalla dittatura cesariana alla democrazia organica”, cerca di risolvere la scomoda e difficile equazione fascismo-democrazia attraverso i cambiamenti di rotta che svariati modelli di impostazione costituzionale impressero alla Repubblica Sociale Italiana. Una “provocazione” soltanto apparente, che si ammorbidisce e si spegne quasi subito quando si chiarisce il concetto dell'aggettivo “organico”, equivalente a “di totale partecipazione”, in altre parole riferentesi a un corporativismo ispirato alla dottrina sociale cristiana e alla Rerum novarum di Leone XIII, tale da coinvolgere pienamente ogni strato sociale e ogni categoria lavorativa nella guida e nel funzionamento dello Stato.
A sostegno e rinforzo della sua tesi Primo Siena dà voce ai fatti pubblicando in appendice il progetto di costituzione della Rsi di Carlo Alberto Biggini, a garanzia della cui validità l'autore chiama immediatamente a deporre un testimone non sospetto, ovvero un progetto di parte avversa stilato nel 1942 da Duccio Galimberti e da Antonino Repaci in previsione di un Ordinamento Confederale Europeo. Questo documento, sorprendente per l'identità di visuale con quello di Biggini, fu redatto per conto del Partito d'azione e del gruppo “Giustizia e libertà” e colpisce per il disegno di uno Stato corporativo dove il potere decisionale appartiene esclusivamente alle forze del lavoro. Altre “curiosità”, e affinità, riguardano la proibizione dello sciopero come arma di lotta, l'istituzione di una magistratura del lavoro (art. 168), la socializzazione delle imprese (art. 166) e l'abolizione dei partiti (art. 56). Norma, quest'ultima, che avrebbe incontrato la piena approvazione di qualche Masaniello di turno oggi presente sulla scena nazionale.
Il progetto di Biggini prevede una repubblica presidenziale dove la democrazia è un metodo e non un obiettivo, dove il parlamento è un organo di rappresentanza popolare eletto a suffragio universale e dove potrà finalmente realizzarsi quell' “umanesimo del lavoro” profetizzato da Giovanni Gentile. Lo stesso che indicava i comunisti come “corporativisti impazienti”.
I progetti costituzionali della Rsi non si limitarono comunque al testo di Carlo Alberto Biggini (in cui si rivive lo spirito mazziniano della Repubblica Romana), ma comprende anche quelli di Vittorio Rolandi Ricci (il Socrate della Rsi secondo Ermanno Amicucci), imperniato su un semipresidenzialismo con controllo parlamentare, vera repubblica degli ottimati (sempre secondo Amicucci), e di Bruno Spampanato, che stilò un “appunto per il Duce” nel quale si elencavano i requisiti basilari per la futura Grande Assemblea Costituente, fra i quali l'abolizione delle nomine dall'alto, le votazioni a scrutinio segreto e l'esclusione di rappresentanza delle istituzioni padronali. Via libera, invece, ai partiti politici.
Dall'esame comparato di questi testi, nonché dai dibattiti che li precedettero e li accompagnarono si entra a pieno titolo nella “glasnost” (trasparenza) e nella “perestroika” (riforma) dell'ultimo Mussolini, ovvero in quel tentativo (molto tardivo peraltro) di rivedere l'assetto dello Stato e di avviarne la ristrutturazione. Primo Siena individua e sottolinea con cura e dovizia di argomentazione le fasi del processo che portò Mussolini dal cesarismo a un legato politico volto a una democrazia organica maturata attraverso una severa revisione critica del Ventennio, in cui non finirono mai di scontrarsi giacobini, libertari e tradizionalisti in camicia nera. Nella Rsi le tante anime del fascismo tornarono a riproporsi e a confrontarsi con maggior veemenza fino a confermare in pieno, e proprio in questa vivace contrapposizione, il suo carattere movimentista.
Libro di notevole impegno, La perestroika dell'ultimo Mussolini pone a più riprese l'accento sulla ventata di revisione/innovazione che soffiò sulla Rsi, brevemente e intensamente vissuta in una ricerca di identità capace di esprimere una palingenesi autenticamente rigeneratrice. Questo aspetto è il lato più stimolante del volume, esempio di saggistica “politicamente corretta”, profondità di indagine e contributo a una ricerca storica che faticosamente comincia a staccarsi dalla passione di parte per pensare e operare fuori dal pregiudizio.
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domenica 17 marzo 2013
venerdì 9 novembre 2012
Un capitolo di SOCIALISMO, CALCOLO ECONOMICO E IMPRENDITORIALITÀ di Huerta de Soto su IL GIORNALE del 9/11/2012
HUERTA DE SOTO La risposta liberale ai tentativi sbagliati di uscire dalla crisi
Ecco perché i neosocialisti sbagliano
Cercano di conciliare vecchie utopie di mercato. Ma questa ricetta porta al fallimento economico
Dopo Miss ed Enaudi, ecco uno scritto di Jesus Huerta de Soto, tratto, per gentile concessione dell'editore Solfanelli, dal volume Socialismo, calcolo economico e imprenditorialità. In questo volume, pubblicato per la prima volta nel 1992 e poi costantemente rivisto e aggiornato, l'economista spagnolo erede della Scuola austriaca mette in luce come la pianificazione economica, tipica del socialismo, sia sempre destinata al fallimento economico. Negli ultimi capitoli, l'analisi si spinge oltre, e porta al rifiuto di ogni commistione tra socialismo e mercato. Una formula oggi molto in auge, specie in Italia.
Ecco perché i neosocialisti sbagliano
Cercano di conciliare vecchie utopie di mercato. Ma questa ricetta porta al fallimento economico
Dopo Miss ed Enaudi, ecco uno scritto di Jesus Huerta de Soto, tratto, per gentile concessione dell'editore Solfanelli, dal volume Socialismo, calcolo economico e imprenditorialità. In questo volume, pubblicato per la prima volta nel 1992 e poi costantemente rivisto e aggiornato, l'economista spagnolo erede della Scuola austriaca mette in luce come la pianificazione economica, tipica del socialismo, sia sempre destinata al fallimento economico. Negli ultimi capitoli, l'analisi si spinge oltre, e porta al rifiuto di ogni commistione tra socialismo e mercato. Una formula oggi molto in auge, specie in Italia.
[...] ci sono solo due alternative: o esiste una completa
libertà per l’esercizio della funzione imprenditoriale (in un contesto di
riconoscimento e difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione, e
senza altre limitazioni oltre al minimo di norme tradizionali del diritto
privato e penale necessarie ad evitare l’aggressione asistematica all’azione
umana e l’inadempienza dei contratti); oppure si esercita pressione in modo
sistematico e generalizzato sulla funzione imprenditoriale in aree più o meno
estese del mercato e della società, e, in concreto, si impedisce la proprietà
privata dei mezzi di produzione. In questo caso, non è possibile esercitare
liberamente la funzione imprenditoriale nelle aree sociali interessate, e
specialmente in quella dei mezzi di produzione, con l’inesorabile conseguenza
dell’impossibilità, in tutte queste aree, del calcolo economico razionale che
abbiamo già spiegato dettagliatamente nella nostra analisi.
Come abbiamo dimostrato, il secondo sistema rende
impossibile il coordinamento sociale e il calcolo economico, che si possono
portare a termine solo in un regime di completa libertà per l’esercizio
dell’azione umana. Quello che i “socialisti di mercato” hanno cercato di fare è
elaborare una fantomatica “sintesi teorica” in cui, stabilendosi un sistema
socialista (caratterizzato dalla sistematica coazione contro l’azione umana e
per la proprietà pubblica dei mezzi di produzione), si mantenga comunque
l’esistenza di un “mercato”. Per ragioni ideologiche, romantiche, etiche o
politiche, si rifiutano in modo ostinato e cocciuto di abbandonare il
socialismo, e, molto colpiti dalle critiche di Mises e Hayek, cercano di
reintrodurre il mercato nei loro schemi, con la vana speranza di ottenere “il
meglio di entrambi i mondi”, così come di rendere il loro ideale più popolare e
attraente.
Ma ciò che i socialisti non vogliono capire è che è
sufficiente restringere violentemente la libera azione umana in qualsiasi area
sociale, e specialmente in quella legata ai fattori o mezzi di produzione,
perché il mercato, che è l’istituzione sociale per eccellenza, smetta di
funzionare in maniera coordinatrice e di generare l’informazione pratica
indispensabile per rendere possibile il calcolo economico.
Quello che i “socialisti di mercato” non capiscono, insomma,
è che non si può esercitare impunemente la violenza sistematica contro
l’essenza più profonda dell’essere umano: la sua capacità di agire liberamente
in qualsiasi circostanza concreta di tempo e di luogo.
O, per lo meno, i “socialisti di mercato” non lo hanno
capito fino ad ora. Perché recentemente Brus e Laski (che si sono autodefiniti
“ex riformatori ingenui”, antichi sostenitori per molti anni del “socialismo di
mercato”), seguendo Temkin, hanno finito per fare loro le seguenti parole di
Mises; «Ciò che questi neosocialisti suggeriscono è realmente paradossale. Essi
vogliono abolire il controllo privato dei mezzi di produzione, lo scambio di
mercato, i prezzi di mercato e la concorrenza. Ma al tempo stesso vogliono
organizzare l’utopia socialista in modo che la gente possa agire come se queste
cose fossero ancora presenti. Vogliono che la gente giochi al mercato come i
bambini giocano alla guerra, alla ferrovia o alla scuola. Non comprendono come
tale gioco infantile differisca dalla cosa reale che cercano di imitare [...]
Un sistema socialista con mercato e prezzi di mercato è altrettanto
contraddittorio della nozione di un quadrato triangolare.»
O come, seguendo Mises, molto recentemente e in modo più
netto, ha concluso Anthony de Jasay, per il quale parlare di “socialismo di
mercato” è altrettanto contraddittorio che riferirsi «alla neve calda, a una
prostituta vergine, a uno scheletro obeso, o a un quadrato circolare».
Si può capire che questa ossessione per ottenere la
“quadratura del cerchio” che implica tutto il “socialismo di mercato” sia stata
oggetto di interesse e di sforzo a livello scientifico solo se si considerano
le tre argomentazioni seguenti: in primo luogo, la forte motivazione
politico-ideologica, che poco fa abbiamo definito addirittura ostinata e
cocciuta, a non abbandonare l’ideale socialista, per ragioni passionali,
romantiche, etiche o politiche; in secondo luogo, l’utilizzazione del modello
neoclassico dell’equilibrio, che solo in modo molto limitato, povero e confuso
descrive il funzionamento reale del mercato capitalista, e nel quale, poiché si
suppone che l’informazione necessaria sia disponibile, si suggerisce che un
sistema socialista potrebbe funzionare con le stesse premesse teoriche del
modello statico; e, in terzo luogo, l’espressa rinuncia e addirittura la condanna
ad analizzare teoricamente il funzionamento reale dell’azione umana in ambiti
nei quali non esista la proprietà privata dei mezzi di produzione, con il
pretesto che le considerazioni sugli incentivi e sulle motivazioni sono
“estranee” al campo della “teoria” economica.
Alcuni autori socialisti propongono, tutt’al più,
l’introduzione di “bonus” o “incentivi” che simulino goffamente i benefici
imprenditoriali del mercato, senza arrivare a capire (e se questo succede agli
stessi economisti che cosa potrà succedere a coloro che non sono esperti nella
materia?) perché nel socialismo i gestori non dovrebbero agire come fanno gli
imprenditori in un’economia di mercato, se si dà loro genericamente
l’istruzione di farlo così, o di “agire in modo coordinato”, o in “funzione del
bene comune”, ecc. Questi teorici non capiscono che le direttive generali, pur
con tutte le buone intenzioni, non servono a niente al momento di prendere
decisioni concrete riguardo ai problemi specifici che si presentano in
determinate circostanze di tempo e di luogo. Se noi umani ci dedicassimo ad
agire solamente secondo l’istruzione coercitiva, tanto “opportuna” quanto vuota
di contenuto, di “fomentare il bene comune”, o di “coordinare i processi
sociali” o, addirittura, di “amare il prossimo”, finiremmo per forza per agire
in modo scoordinato, contro il bene comune e danneggiando gravemente chi ci sta
vicino e chi ci sta lontano, divenendo impossibile l’apprezzamento, in ogni
circostanza concreta e in modo creativo, delle diverse opportunità di beneficio
esistenti, così come della loro valutazione e del loro confronto con i costi
soggettivi potenziali.
Jesús Huerta de Soto
SOCIALISMO, CALCOLO ECONOMICO E IMPRENDITORIALITÀ
Presentazione di Carmelo Ferlito
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-757-4]
Pagg. 440 - € 28,00
lunedì 16 luglio 2012
LE ORIGINI ESOTERICHE DEL MODERNISMO (recensione di Valentino Cecchetti)
Adele Cerreta, Le origini esoteriche del Modernismo. Padre Gioachino Ambrosini e la teologia modernista, Presentazione di Roberto de Mattei. Introduzione di Gianandrea de Antonellis, Solfanelli, Chieti, 2012, €. 14,00.
Alessandro Cavallanti, Antonio Fogazzaro nei suoi scritti e nella sua propaganda. Un po’ di vera luce. Opuscoli Popolari Antimodernisti (2, 1911), Solfanelli-Edizioni Amicizia Cristiana, 2008, €. 5,00.
Anche la storia dell’Italia contemporanea, lo ricordava Cecilia Gatto Trocchi ne Il Risorgimento esoterico (1998), è legata al fitto intreccio “di interessi per la magia, il sapere occulto, la dimensione sapienziale e misterica” che si sviluppa negli anni dell’Unità e in cui affonda le sue radici lo “spiritualismo materialistico” postmoderno.
È la fase del passaggio a concezioni “positive”, in cui la magia perde ogni connotato tenebroso e si diffonde un’idea energetica della natura, delle forze, palesi e nascoste, che la abitano e la governano. Anche l’occultismo diventa una specie di scienza. Mistero e oggettività si sovrappongono e si confondono in modo arbitrario. Si cerca (e si ottiene) il ritorno al substrato animico delle cose, presupposto dal quale deriveranno non poche delle formulazioni attuali del sincretismo gnostico, tra cui quella oggi più in voga e che va sotto il nome di New Age.
Un contributo originale e suggestivo alla ricostruzione di questi processi, che investono in pieno il mondo cattolico, viene dal libro di Adele Cerreta Le origini esoteriche del Modernismo. Padre Gioachino Ambrosini e la teologia modernista, presentazione di Roberto de Mattei, introduzione “L’ombra della croce di Butti: un precedente de Il Santo di Fogazzaro” di Gianandrea Antonellis, Solfanelli, Chieti, 2012, €. 14,00.
A partire dalla figura poco nota, ma indubbiamente “singolare” del gesuita bolognese (ma cresciuto e formatosi in Francia e in Spagna) Gioachino Ambrosini (1857-1923), l’autrice indaga sui molti risvolti della “sintesi” modernistica e mette in risalto come la maschera progressista del modernismo – il rinnovamento dei principi dottrinali e morali del cattolicesimo attraverso l’incontro tra la teologia cristiana, la scienza e i principi della filosofia moderna, in particolare della critica kantiana – sia funzionale alla “cultura del regresso” cui s’è appena accennato.
Occultismo e modernismo. Lettere familiari ad un amico di padre Ambrosini è un’opera non molto conosciuta. Anche se è stata segnalata di recente a fianco del Manuale di Teosofia di padre Giovanni Busnelli edito da “La Civiltà Cattolica” tra il 1909 e il 1915, come testimonianza della “reazione cattolica e gesuitica alla teosofia”, per “l’oggettiva complicità tra il movimento teosofico e quello modernista”, (M. Pasi, Teosofia e Antroposofia nell’Italia del primo Novecento, Esoterismo, 25. Annali, Storia d’Italia, Einaudi, pp. 591-92).
Il libro esce a Bologna nel 1907 ed ha una forma epistolare. Si rivolge ad un immaginario Alfredo, simbolo dei giovani cattolici che padre Ambrosini vuole salvare dall’errore. Il suo scopo è svelare le “occulte attinenze” del modernismo, presenti nelle opere di Antonio Fogazzaro. In particolare ne Il Santo (1905), libro di enorme successo e risonanza, che venne definito da uno dei principali esponenti della teologia modernista, l’irlandese Georges Tyrrell (in una lettera a Henri Bremond) “il romanzo del movimento” e fu senz’altro uno dei più formidabili strumenti di affermazione e di propaganda delle nuove idee.
Come ricorda Adele Cerreta, Il Santo, viene pubblicato nel novembre 1905 da Baldini e Castoldi. Ha una “diffusione rapidissima” in Italia e all’estero, grazie anche alle numerose traduzioni realizzate tra il 1906 e il 1912 (tra le quali anche quella in giapponese). Tocca quote altissime nelle vendite, oltre 30.000 mila copie in Italia nell’arco di un anno, circa 100.000 mila in America e in Inghilterra fino all’estate del 1908. Il romanzo ottiene l’attenzione prolungata dei maggiori quotidiani europei e americani ed è inserito nell’Indice dei libri proibiti il 5 aprile del 1906.
Fogazzaro si sottomette alla condanna, ma continua a sostenere pubblicamente le idee de Il Santo. Non a caso il protagonista Piero Maironi, già personaggio centrale di Piccolo mondo antico (1895), ora penitente nell’abbazia di Subiaco, dove ha assunto il nome di Benedetto, auspica (lo fa notare Roberto de Mattei) una radicale riforma della Chiesa, ma operata dall’interno, senza scismi e rotture, secondo le linee esposte da altri personaggi, come Giovanni Selva e padre Salvati.
La chiave interpretativa de Il Santo sta nella purificazione della fede attraverso l’unità trascendente di tutte le religioni. Fogazzaro la espone nel quinto capitolo del romanzo ed essa coincide, come mostra il libro di padre Ambrosini, con le idee di Helena Blavatskij e di Annie Besant. Fondamentale è la riproposizione teosofica della legge induistica del karma. Si può individuare una forte analogia testuale tra molti passi de Il Santo e La chiave della Teosofia di Helena Blavatskij e ciò indica la presenza del comune orizzonte culturale del modernismo e della teosofia. In entrambi i casi l’esperienza umana si svolge in una realtà in cui la natura e lo spirito sono un’unica cosa e non possono essere separati.
È in questo modo che Il Santo partecipa alla identificazione del “paradigma” post-risorgimentale, in una forma strettamente complementare e parallela a quella ufficiale del laicismo e dell’anticlericalismo della Nuova Italia. Anche Il Santo contribuisce a definire il processo attraverso cui le classi dirigenti massoniche, poste alla guida del processo di unificazione nazionale, riconducono alla “Tradizione Primordiale” globalizzante la cultura cattolica, che esse ritengono la forma specifica e negativa della vita spirituale italiana.
Ciò si traduce in una cultura di propaganda, in una dimensione culturale concreta e operativa, che confeziona per i “nuovi italiani” una versione dogmatica e popolare dei principi iniziatici, agendo su un doppio pedale: la diffusione dell’ideologia ufficiale liberal-risorgimentale e la proposta di un “diverso cattolicesimo”. Diverso proprio perché originario, privo delle “incrostazioni dogmatiche e liturgiche accumulatesi nei secoli” e dunque autentico.
Si tratta di una pratica “mitopoietica” che tuttavia segue, nei suoi principi fondamentali, modalità sostanzialmente immutate dal Settecento ad oggi. Anche se, nel caso specifico de Il Santo, si fa sentire la diffusa sensibilità tardoromantica, intimamente legata, per quanto concerne le idee filosofiche e poetiche di Fogazzaro, con la Naturphilosophie di Schelling. Una concezione che vuole lo Spirito tutto racchiuso ed impresso nella natura e contiene in potenza numerosi temi della New Age, in particolare quelli connessi all’approccio “olistico” al problema umano.
Dunque la “mitopoiesi” massonica ha uno scopo prevalentemente politico. Si possono rintracciare con facilità nell’esoterismo nazional-religioso risorgimentale (si pensi a Mazzini ad esempio e alla credenza nella reincarnazione e nella vita extraterrestre), molti elementi neospiritualistici che saranno in voga con il nuovo pensiero acquariano.
Ciò perché, dopo l’Unità, si afferma una vera e propria ideologia sostitutiva, strumento pedagogico per la Nuova Italia. Basti ricordare, per restare nel campo della costruzione sociale attraverso la letteratura, ad un livello assai superiore a quello de Il Santo, ma pur sempre sul duplice piano iniziatico e popolare, al romanzo “per ragazzi” Pinocchio, sofisticato tentativo di dotare l’Italia di una cultura neopagana, come hanno dimostrato Nicola Coco e Alfredo Zambrano nel libroPinocchio e i simboli della “Grande opera” (1984). Senza dimenticare che tutto accade nel quadro del disegno cosmopolitico, esplicitamente rivendicato dalla teosofia massonica, della “grande fratellanza umana su tutta la terra”, entro cui disciogliere le residue istanze “identitarie” della nazione e della sua cultura.
In questo quadro è utile rileggere il secondo degli “Opuscoli popolari Antimodernisti” del direttore de “L’Unità Cattolica” don Alessandro Cavallanti (1879-1917), dedicato a Antonio Fogazzaro, nei suoi scritti e nella sua propaganda. Un po’ di vera luce (1911), ristampato qualche anno fa (2008) sempre da Solfanelli nelle Edizioni Amicizia Cristiana (€. 5,00). L’intervento di don Cavallanti costituisce (lo indica la quarta di copertina), un segno del persistere dell’influenza modernista presso il clero e i circoli cattolici anche all’indomani della Pascendi (1907) di san Pio X. Significativo il caso del vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, che lodò Fogazzaro nell’opera Profili di personaggi italiani (1911) e subì il monito di Papa Sarto.
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mercoledì 30 maggio 2012
Recensione: STELLA E CORONA (Sofia Secchi su www.mangialibri.com)
Sono passati sessantacinque anni dalla caduta del fascismo. Il sogno di libera espressione della voce del popolo si è rivelato una chimera. La sostituzione di un élite con un’altra, del partito unico con un’unica congrega, della dittatura con l’oligarchia. Ecco cosa vediamo. Il nobile patto costituente è diventato la trama degli intrighi di palazzo. Così il simbolo della Repubblica, la ruota dentata, sembrerebbe non essere affatto una ruota, “ma una tavola rotonda con venti sedie, dal significato oscuro”. E non c’è dubbio che il tallone d’Achille di una democrazia che non funziona sia proprio il sistema elettorale, quel sistema che legittima i rappresentanti del popolo ad agire per conto e secondo la volontà di questo. Ma nella storia repubblicana, da 1946 ad oggi, il ruolo delle elezioni è stato altro. È stato quello di fornire a dei capi “un’investitura, permanente o periodicamente confermabile, che gli conferisca un potere incondizionato, senza i contrappesi e i controlli propri di una democrazia rappresentativa”. E questa distorsione del ruolo delle elezioni si è notevolmente accentuata con il sistema vigente, proporzionale, con premio di maggioranza a liste bloccate, il cosiddetto porcellum, approvato nel dicembre 2005 come atto politico del governo Berlusconi II. Le critiche al porcellum sono molte. In primis le liste bloccate per Camera e Senato rappresentano un esproprio di sovranità popolare, la negazione del giudizio degli elettori verso gli eletti. In secondo luogo il sistema non funziona sul piano politico, permettendo che lotte di potere si svolgano continuamente sia dentro che fuori le Camere; le crisi parlamentari sono all’ordine del giorno. Va notato poi che con il premio di maggioranza regionalizzato è quasi impossibile formare una maggioranza coerente tra Camera e Senato. Ma questo è solo quello che è sotto gli occhi di tutti. Poi ci sono i brogli, che si susseguono nella storia repubblicana a cominciare da quello del referendum repubblica/monarchia nel 1946, fino al più recente nel 2006 con la seconda vittoria di Prodi. “Sembra quasi di intravedere una possibile legge empirica: ogni qualvolta che c’è una meta da raggiungere, una soglia da superare, è certo che la barca delle elezioni si piegherà, compirà ardite manovre, virate pericolose, per cogliere obiettivi che nulla hanno a che fare con la sovranità popolare tramite il voto”. Verrebbe allora da chiedersi : vince chi vota o chi conta?...
Giorgio Galli, uno dei maggiori politologi in Italia, e Daniele Vittorio Comero, esperto elettorale, ci mettono di fronte alla storia repubblicana, puntando il dito contro il sistema elettorale vigente. Ci mostrano con occhi disincantati cosa si nasconde dietro le quinte, facendoci addentrare negli ingranaggi della macchina elettorale e presentandoci i suoi gestori senza maschera. Abbiamo bisogno di trasparenza e semplificazione per poter scegliere coscientemente coloro che ci dovranno rappresentare. Abbiamo bisogno di vivere la storia dei partiti, la loro attività, aver ben presente i loro resoconti finanziari. Ne abbiamo bisogno per riavere parola. “Il processo di delega ha bisogno di fondarsi sulla fiducia, sulla consapevolezza dell’elettore che liberamente sceglie la persona più adatta con cui farsi rappresentare”. Gli elettori sono disillusi, nella classe politica non si riconoscono, a votare non ci vanno più. Dopo tutto gli si chiede una semplice crocetta, gli si chiede di accettare il vicolo cieco di un simbolo, trattenendo un fiume di parole. Sanno bene che questo sistema non è onesto e non vogliono più farne parte. Galli e Comero quindi danno una possibilità al popolo elettorale per non uscire dalla vita politica, ma al contrario per riconquistarla. Propongono un sistema elettorale non più lesivo della sovranità popolare, bensì basato su di essa e fiducioso nella capacità di scelta di un popolo che ha già sopportato troppo.
Stella e Corona – Sogni, utopie e brogli elettorali nella democrazia elettorale italiana 1946–2011
domenica 1 aprile 2012
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