Ecco perché i neosocialisti sbagliano
Cercano di conciliare vecchie utopie di mercato. Ma questa ricetta porta al fallimento economico
Dopo Miss ed Enaudi, ecco uno scritto di Jesus Huerta de Soto, tratto, per gentile concessione dell'editore Solfanelli, dal volume Socialismo, calcolo economico e imprenditorialità. In questo volume, pubblicato per la prima volta nel 1992 e poi costantemente rivisto e aggiornato, l'economista spagnolo erede della Scuola austriaca mette in luce come la pianificazione economica, tipica del socialismo, sia sempre destinata al fallimento economico. Negli ultimi capitoli, l'analisi si spinge oltre, e porta al rifiuto di ogni commistione tra socialismo e mercato. Una formula oggi molto in auge, specie in Italia.
[...] ci sono solo due alternative: o esiste una completa
libertà per l’esercizio della funzione imprenditoriale (in un contesto di
riconoscimento e difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione, e
senza altre limitazioni oltre al minimo di norme tradizionali del diritto
privato e penale necessarie ad evitare l’aggressione asistematica all’azione
umana e l’inadempienza dei contratti); oppure si esercita pressione in modo
sistematico e generalizzato sulla funzione imprenditoriale in aree più o meno
estese del mercato e della società, e, in concreto, si impedisce la proprietà
privata dei mezzi di produzione. In questo caso, non è possibile esercitare
liberamente la funzione imprenditoriale nelle aree sociali interessate, e
specialmente in quella dei mezzi di produzione, con l’inesorabile conseguenza
dell’impossibilità, in tutte queste aree, del calcolo economico razionale che
abbiamo già spiegato dettagliatamente nella nostra analisi.
Come abbiamo dimostrato, il secondo sistema rende
impossibile il coordinamento sociale e il calcolo economico, che si possono
portare a termine solo in un regime di completa libertà per l’esercizio
dell’azione umana. Quello che i “socialisti di mercato” hanno cercato di fare è
elaborare una fantomatica “sintesi teorica” in cui, stabilendosi un sistema
socialista (caratterizzato dalla sistematica coazione contro l’azione umana e
per la proprietà pubblica dei mezzi di produzione), si mantenga comunque
l’esistenza di un “mercato”. Per ragioni ideologiche, romantiche, etiche o
politiche, si rifiutano in modo ostinato e cocciuto di abbandonare il
socialismo, e, molto colpiti dalle critiche di Mises e Hayek, cercano di
reintrodurre il mercato nei loro schemi, con la vana speranza di ottenere “il
meglio di entrambi i mondi”, così come di rendere il loro ideale più popolare e
attraente.
Ma ciò che i socialisti non vogliono capire è che è
sufficiente restringere violentemente la libera azione umana in qualsiasi area
sociale, e specialmente in quella legata ai fattori o mezzi di produzione,
perché il mercato, che è l’istituzione sociale per eccellenza, smetta di
funzionare in maniera coordinatrice e di generare l’informazione pratica
indispensabile per rendere possibile il calcolo economico.
Quello che i “socialisti di mercato” non capiscono, insomma,
è che non si può esercitare impunemente la violenza sistematica contro
l’essenza più profonda dell’essere umano: la sua capacità di agire liberamente
in qualsiasi circostanza concreta di tempo e di luogo.
O, per lo meno, i “socialisti di mercato” non lo hanno
capito fino ad ora. Perché recentemente Brus e Laski (che si sono autodefiniti
“ex riformatori ingenui”, antichi sostenitori per molti anni del “socialismo di
mercato”), seguendo Temkin, hanno finito per fare loro le seguenti parole di
Mises; «Ciò che questi neosocialisti suggeriscono è realmente paradossale. Essi
vogliono abolire il controllo privato dei mezzi di produzione, lo scambio di
mercato, i prezzi di mercato e la concorrenza. Ma al tempo stesso vogliono
organizzare l’utopia socialista in modo che la gente possa agire come se queste
cose fossero ancora presenti. Vogliono che la gente giochi al mercato come i
bambini giocano alla guerra, alla ferrovia o alla scuola. Non comprendono come
tale gioco infantile differisca dalla cosa reale che cercano di imitare [...]
Un sistema socialista con mercato e prezzi di mercato è altrettanto
contraddittorio della nozione di un quadrato triangolare.»
O come, seguendo Mises, molto recentemente e in modo più
netto, ha concluso Anthony de Jasay, per il quale parlare di “socialismo di
mercato” è altrettanto contraddittorio che riferirsi «alla neve calda, a una
prostituta vergine, a uno scheletro obeso, o a un quadrato circolare».
Si può capire che questa ossessione per ottenere la
“quadratura del cerchio” che implica tutto il “socialismo di mercato” sia stata
oggetto di interesse e di sforzo a livello scientifico solo se si considerano
le tre argomentazioni seguenti: in primo luogo, la forte motivazione
politico-ideologica, che poco fa abbiamo definito addirittura ostinata e
cocciuta, a non abbandonare l’ideale socialista, per ragioni passionali,
romantiche, etiche o politiche; in secondo luogo, l’utilizzazione del modello
neoclassico dell’equilibrio, che solo in modo molto limitato, povero e confuso
descrive il funzionamento reale del mercato capitalista, e nel quale, poiché si
suppone che l’informazione necessaria sia disponibile, si suggerisce che un
sistema socialista potrebbe funzionare con le stesse premesse teoriche del
modello statico; e, in terzo luogo, l’espressa rinuncia e addirittura la condanna
ad analizzare teoricamente il funzionamento reale dell’azione umana in ambiti
nei quali non esista la proprietà privata dei mezzi di produzione, con il
pretesto che le considerazioni sugli incentivi e sulle motivazioni sono
“estranee” al campo della “teoria” economica.
Alcuni autori socialisti propongono, tutt’al più,
l’introduzione di “bonus” o “incentivi” che simulino goffamente i benefici
imprenditoriali del mercato, senza arrivare a capire (e se questo succede agli
stessi economisti che cosa potrà succedere a coloro che non sono esperti nella
materia?) perché nel socialismo i gestori non dovrebbero agire come fanno gli
imprenditori in un’economia di mercato, se si dà loro genericamente
l’istruzione di farlo così, o di “agire in modo coordinato”, o in “funzione del
bene comune”, ecc. Questi teorici non capiscono che le direttive generali, pur
con tutte le buone intenzioni, non servono a niente al momento di prendere
decisioni concrete riguardo ai problemi specifici che si presentano in
determinate circostanze di tempo e di luogo. Se noi umani ci dedicassimo ad
agire solamente secondo l’istruzione coercitiva, tanto “opportuna” quanto vuota
di contenuto, di “fomentare il bene comune”, o di “coordinare i processi
sociali” o, addirittura, di “amare il prossimo”, finiremmo per forza per agire
in modo scoordinato, contro il bene comune e danneggiando gravemente chi ci sta
vicino e chi ci sta lontano, divenendo impossibile l’apprezzamento, in ogni
circostanza concreta e in modo creativo, delle diverse opportunità di beneficio
esistenti, così come della loro valutazione e del loro confronto con i costi
soggettivi potenziali.
Jesús Huerta de Soto
SOCIALISMO, CALCOLO ECONOMICO E IMPRENDITORIALITÀ
Presentazione di Carmelo Ferlito
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-757-4]
Pagg. 440 - € 28,00